lunedì 23 agosto 2010

Ma... er senso de ghé!?

TITOLO: The Butterfly Zone - Il Senso Della Farfalla
REGIA: Luciano Capponi
PRODUZIONE: Play Phoenix Production, 2009



“Le formiche vivono per costruire il formicaio; l’uomo per costruire l’uomaio.
La differenza è che l’uomaio è globalizzato.”

Una frase di aperutra che molto lascia trasparire il carattere globale, appunto, del film.
Un découpage poco classico e forse poco riuscito, basato, letteralmente, sull’intreccio di varie realtà, purtroppo scollegate tra di loro, probabilmente a causa delle scelte registiche piuttosto che della natura setssa delle suddette. Luciano Capponi, autore del soggetto, della sceneggiatura, nonchè regista (per la prima volta) del film, fatica a colloccarsi in un genere ben definito, e spazia senza paura scegliendo uno sfondo fantasy, su quale aggiungere sprazzi di thriller, fantascienza, commedia e dramma. Forti e piacevoli i richiami al teatro di genere, sostenuti da un registro fiabesco che talvolta cerca, senza riuscirci, di sfociare nel comico. Il neo regista ha la buona intenzione, seguendo questo filone proprio del teatro dell’assurdo, di pervadere la sua opera di quella spontaneità data dalla tecnica dell’improvvisazione, che egli suggerisce agli interpreti, i quali a loro volta sanno sfruttare l’occasione per metterla in pratica, giocandoci, padroneggiandola e riuscendo a stendere un velo omogeneo, stilisticamente parlando, sopra il racconto. Inoltre il nostro autore, sembra guidato dalla convinzione che si possa passare da una risata ad una lacrima in un battito di ali di farfalla. Ma è tutto da vedere, poichè la presenza di qualche sgraziata farfalla in grafica 3D, sia nel film che nel titolo, è ancora in attesa di una giustificazione.

Il film si apre con una sequenza singolare. Un’astronave aliena, in orbita sulla Terra, a causa uno sbaglio del pilota, lancia un fascio di energia attraverso l’atmosfera, che arriva a colpire la superficie del pianeta, più precisamente la vigna di una cascina in un piccolo paese sulle colline tosco-emiliane, provocando una qualche sorta di effetto non meglio precisato alle cose, piante animali presenti nell’area interessata. Dopo questo grossolano quanto grave errore, il colpevole viene rimproverato da qualche suo superiore, e l’astronave si allontana a gran velocità dal luogo del misfatto. Un messaggio arriva chiarissimo: da questo momento in poi, tutto è possibile, ogni azione è giustificata, e la sensazione di un potenziale latente in attesa di liberarsi pervade lo spettatore che è quindi pronto ad accettare pressochè qualunque evento gli venga proposto di li a poco. Il racconto procede con un’ellissi temporale che ci porta nel prossimo futuro e ci mostra quelli che potrebbeo a conti fatti essere i veri (ma non gli unici) protagonisti della vicenda: il padre di Vladimiro viene a mancare, ed egli tornando alla casa di famiglia (la sopracitata cascina luogo del fenomeno paranormale), ritrova l’amico di infanzia Amilcare assieme al quale una sera rievoca il passato brindando con una buona bottiglia di “Caresse du Roi”, un vino trovato in cantina e imbottigliato dal padre di Vladimiro. Questo vino misterioso ha l’effetto di trasportare chi lo beve in un’altra dimensione, ovvero il mondo dei morti. I due giovani compiono questo primo viaggio nell’aldilà, increduli e scettici, ma via via sempre più consapevoli ad ogni bottiglia stappata, tanto incuriositi quanto incoscienti. Le continue visite al regno dei defunti porteranno la resurrezione accidentale di un serial killer morto 30 anni prima, che ora potrà essere libero di continuare la sua opera nel piccolo paese. I due giovani, con l’aiuto di una detective il cui compito è di risolvere questi misteriosi omicidi, dovranno rimediare al danno, ed aprofitteranno inoltre della situazione per risolvere alcune faccende in sospeso con gli abitanti della dimensione parallela.

Questa a grandi linee la trama individuata come la principale. Sono presenti però non poche vicende parallele: gli approfondimenti volti a delineare il personaggio di Amilcare; la delicata situazione personale della detective che ha un figlio piccolo ricoverato in fin di vita; il capo della polizia locale, losco individuo in possesso di informazioni riservate riguardanti il caso del killer; un ente per la sicurezza nazionale che procede con il monitoraggio dei fenomeni paranormali dietro al quale si interavede una setta che mira ad impossessarsi del vino miracoloso per ottenere il tanto agognato controllo sul genere umano; insomma moltissimi spunti.
Il problema fondamentale sta nel fatto che si percepisce appena la differenza tra lo snodo centrale del racconto e le vicende marginali, che a loro volta si presentano come solamente accostate e poco collegate tra loro e giustificate. Troppo spesso si ha la sensazione di stare camminando sulla strada maestra salvo poco dopo accorgersi che in realtà si è in un vicolo cieco. Tutte le vicende sembrano avere lo stesso peso e potenziale e diramarsi sullo stesso piano, ma con una eterogeneità di argomenti e ‘generi’, coem in questo caso, il risultato non può che essere confuso, difficile da seguire e vicino all’eccesso. Molto contrasto e poca armonia. A riprova di ciò, non pochi i particolari seminati durante il film, che fremono per essere svelati o chiariti, ma che saranno destinati a rimanere solo un dubbio tra tanti. Simoboli satanici, religiosi, pagani, tradizionali, ruotano attorno ai personaggi, che però li schivano mestamente senza lasciarsi affascinare dal vero significato di questo cocktail di significanti. D’altronde sono tutti attratti dalle ‘carezze del Re’, il resto poco conta. Ed è per questo che ad un primo impatto ci si domanda: chi è il protagonista? Il vino capace di aprire le porte di un’altra dimensione? Un ragazzo che ha perso il padre con il quale aveva un rapporto complicato (malgrado lo scarso peso delle motivazioni che ci vengono date)? Un serial killer? Una setta di invasati? Gli immancabili alieni? (che al giorno d’oggi, sono una molto comoda e troppo comune scappatoia per giustificare senza perdere tempo tutto ciò che è surreale e fantastico...); con tutta probabilità il ruolo che andiamo cercando non lo troveremo fra questi, ma bensì in ciò che il regista vuole comunicare e nello stile che mette in atto per farlo.

Il regista stesso controbatte le critiche di chi lo ‘accusa’ di aver dato alla luce un’opera difficile da seguire e da capire rispondendo con una metafora: “La Comunità Europea impone che siano commercializzate solo le zucchine lunghe diciotto centimetri e larghe quattro. Io invece ho piantato un seme italiano e ho fatto crescere la pianta in tutta libertà, senza costrizioni. Il mercato impone che siano realizzati prodotti rispondenti a determinati standard; io invece amo seguire una maggiore libertà espressiva”. Ben venga. Ma attenzione. La libertà espressiva può rivelarsi un’arma a doppio taglio.
Bisogna quantomento saperla usare fino in fondo facendola servire allo scopo. Non basta sguinzagliarla. E di questo, il neo regista, se già non ne è consapevole, presto lo sarà. Abbiamo parlato di tentativi di legare idee, spunti, sensazioni... l’altro lato della medaglia mostra che tutto questo è degnamente sostenuto da, sì, belle immagini. Molto scenografiche, si sente una vena teatrale forte ma non invadente, le immagini sono ricche di particolari e pervase da una poetica che segue sempre il racconto. I fondali ricercati e curati dall’aspetto cromatico degli elemnti a quello delle loro forme materiali, aiutano più dei personaggi che li abitano a lasciarsi andare all’atmosfera onirica. Nel mondo dei vivi troviamo personaggi (e relativi interpreti) fondamentalmente spaesati e per una ragione o per l’altra non del tutto all’altezza. Vengono messe loro in bocca parole carismatiche e domande trascendentali, che però non trovano dove affondare le radici in un terreno così superficiale e povero di cultura, come quello su cui si trovano a dover camminare. Non ci sono risate: nè da parte del pubblico, che in più di una occasione si trattiene per paura che causa di ilarità non sia il racconto ma la resa dello stesso; nè da parte dei personaggi, poichè gli attori nel momento in cui nella sceneggiatura compare il verbo ‘ridere’, riescono a rendere nella maniera più innaturale, un’azione la quale caratteristica principale è proprio la naturalezza. E non sto parlando di carenza di improvvisazione, che come detto è invece un punto di forza della recitazione. Nel mondo dei morti si evidenzia uno stile contraddistinto per delineare la diversità del luogo: colori desaturi e circostanze inusuali. I personaggi incontrati qui sono decisamente delle maschere, nel modo di vestire, di muoversi, soprattutto di parlare. Buona la soluzione registica che contraddistingue questo ambiente.

C’è forse da chiedersi come abbia fatto la giuria ad assegnare alla pellicola il premio Méliès come miglior film fantastico al Fantafestival 2009, ma non per il riconoscimento in quanto tale, quanto per la motivazione, ossia la “capacità di spaziare tra i generi”. Pregevole per altri aspetti (certe idee, compreso il concetto stesso del vino come porta per altri mondi, metafora riuscitissima), ma la commistione dei generi proprio non è il punto di forza; in ogni caso è lodevole la determinazione di produrre un film come questo, in uno stato come l’italia contemporanea, dove le pellicole indipendenti non sempre hanno spazio e visibilità, soprattutto per generi come quelli trattati.

_ Pietro Torrisi

Videorecensione:


(notare i preset di VideoCopilot nei titoli di testa della videorecensione... sciatti copioni!)

Trailer ufficiale:

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