Research Project
3D aesthetic
pietro torrisi
Abstract
Questo saggio si propone di esaminare uno dei fenomeni di punta del
panorama dell’entertaining visivo mondiale dei giorni nostri, ovvero la
rappresentazione stereoscopica delle immagini in movimento. Il percorso di
ricerca prevede in primo luogo l’analisi dell’evoluzione del “cinema 3D” dagli
albori nella metà degli anni ’90, fino ad oggi, soffermandosi in particolare
sugli aspetti tecnici e teorici attuali. In questo frangente è possibile
riconoscere un principio di mutamento analogo alle precedenti trasformazioni
subite dal mezzo cinema, (come il sonoro alla fine degli anni ’20). Abbiamo a
che fare con un’innovazione, quella del 3D, destinata a portare benefici al linguaggio
cinematografico ed in maniera duratura, o si tratta solo di una fase di
passaggio, scaturita per lo più dalla crisi del settore degli ultimi anni, ma
che non riuscirà a radicarsi?
Lo studio dei principali attori di questa innovazione-rivoluzione,
porta risultati che permettono di delineare, una direzione prevalente delle
tendenze, sia per quanto riguarda l’ambito artistico, che quello economico
legati a questo mezzo; si andrà ad operare un’indagine in ambito produttivo,
per poi passare al mondo della regia, che vede opinioni contrastanti
all’interno del filone sia commerciale, che del cinema d’autore, per giungere
infine al riscontro del pubblico, che ora più che mai rappresenta il fulcro del
sistema dato il suo potere di condizionare a conti fatti l’intero settore
dell’entertainment.
L’approccio
metodologico che è stato scelto per affrontare questa ricerca si basa sullo
studio di editoriali, pubblicazioni, interviste e l’analisi di fattori
statistici; inoltre, verranno raccolti dati tramite la somministrazione al
pubblico di un questionario, con lo scopo di meglio definire i meccanismi di
fruizione del prodotto e le tendenze dello spettatore medio, nonchè di carpirne
il ragionamento che lo porta alla selezione e scelta del film in sala.
Proprio
per la natura ancora da definirsi di questo momento di trasformazione e
passaggio, non è la certezza che andiamo a ricercare, quanto la formulazione di
una previsione, verosimile e basata sui dati raccolti.
Introduzione
Seppur ormai
largamente diffusa come aggettivazione, è erroneo definire un’immagine in “3D”.
3D sta per tre dimensioni, che già di per sè è un attributo che non si sposa
concettualmente bene con quello che è una rappresentazione piatta, come può
essere una stampa, o intangibile, come una proiezione video. 3D è un effetto,
una nostra percezione. Nel periodo dell’avvento della computer grafica il
ternime 3D riferito al cinema stava ad indicare quei film realizzati attraverso
immagini generate al computer. Infatti è corretto riferirsi con il termine CGI,
acronimo di Computer-Generated Imagery, a quei prodotti audiovisivi nati da
sfotware di modellazione tridimensionale (o perchè no anche bidimensionale) che
replicano un mondo verosimilmente palpabile e prospettico, ma che a conti
fatti, sintetizzano una rappresentazione resa mediante un’immagine “2D”. L’aggettivo
corretto da affiancare per rendere il concetto è “stereoscopico”. Per
semplicità ci si riferisce in maniera ormai quasi convenzionale al film
stereoscopico, chiamandolo semplicemnte film 3D.
Per capire innanzitutto
cosa significhi avere una visione stereoscopica, cominciamo col dire che si
tratta di un processo che consta nel percepire due immagini apparentemente
simili ma sostanzialmente differenti, nello stesso istante e nel fonderle attraverso
una elaborazione cerebrale, ottenendo così una visione connotata da una forte e
realistica sensazione di profondità. E’ bene sottolineare che non si tratta di
un’illusione ottica; il nostro cervello non è portato all’inganno in maniera
passiva, bensì è condotto in maniera attiva a compiere uno sforzo percettivo
per ricostruire ad ogni istante questa riproduzione verosimile della visuale
“binoculare”: le due immagini percepite infatti si riferiscono a ciò che è
visto dall’occhio destro e da quello sinistro nello stesso istante.
“With
3D we persuade our eyes to converge on visible objects as if they had physical
mass and position in space, when they really only exist as light emanating from
the two-dimensional surface of a television or theater screen. We have learned
to recognize that as our eyes angle more toward each other (converge) when
looking at an object, we are getting closer to it. This principle is behind the
sense of depth 3D imparts. When we look at something far away, our eyes are aligned in parallel; when something is close enough, we can go practically cross-eyed. Our brain has the ability to sense that an object viewed at a certain convergence angle is a certain distance away. 3D is about creating this sensation of depth in ways that add enjoyment to the motion-imaging experience.”
(Ira Tiffen, 2011, p. 55)
Uno dei punti
cruciali su cui resta acceso il dibattito sull’affermazione dei prodotti
multimediali stereoscopici oggi, riguarda appunto il sistema di fruizione degli
stessi e le piattaforme per divulgarli. Affinché l’effetto della profondità
risulti efficace, è necessario che gli occhi dello spettatore ricevano l’immagine
corrispondente al loro punto di vista rispetto alla scena. Le tecnologie
impiegate, sono diverse, basate su principi diversi ma ancora in via di
perfezionamento e standardizzazione; quel che è certo è che una definizione
rivoluzionaria di questo sistema che esiste da ormai quasi un secolo,
porterebbe ad una diffusione singnificativa e su vasta scala del 3D, e solo allora
si potrà parlare davvero di killer application del settore entertainment (ma
non solo), nonchè inizio di una nuova era del cinema contemporaneo.
Chapter 01: Nascita ed Evoluzione della stereoscopia
Se pensare alla
tridimensionalità riporta alla mente qualcosa di completamente moderno ed
innovativo, forse è meglio chiarire che la stereoscopia non è esattamente una
tecnica nata e sviluppatasi nel nostro secolo, anzi, le sue radici risalgono
addirittura all’inizio del diciannovesimo secolo.
[Section 01]: Albori (1830-1950)
Donata Compagnoni
(2007, p. 23) parla del Britannico Chrles
Wheatstone come del primo a compiere ad inizio ‘800, studi sulla sereoscopia e
sperimentare la simulazione della visione umana mediante l’utilizzo di
stereogrammi affiancati (coppie di disegni statici). Nel 1838, lo studioso
conceretizza tali ricerche scrivendo un trattato sulla visione binoculare e
presenta il primo stereoscopio alla Royal Society di Londra: si trattava di un
oggetto simile ad un binocolo in grado di ricreare la sensazione di profondità
mediante l’impiego degli stereogrammi e successivamente di fotografie; sebbene
innovativa come invenzione, non ebbe successo né seguito immediati. Passo
successivo a Manchester nel 1852, ad opera di J.B. Dancer, fu la creazione di
una fotocamera stereoscopica, dotata cioè di due obiettivi e in grado di
immortalare entrambe le visuali in un’unica immagine fruibile per esempio con
lo stereoscopio. Anche in questo caso, contenuto l’impatto sul pubblico,
eccezion fatta per quegli ambienti ricchi e di alto livello, soliti ad
accogliere con curiosità quasi modaiola le novità dell’entertainment. Quanto
visto finora erano comunque solo rappresentazioni statiche dotate di
profondità.
Luis-Jules
Dubosq, sempre in quegli anni, riadattò il concetto dello stereoscopio per
arrivare a restituire due immagini rispettivamente distinte agli occhi, questa
volta in movimento, brevettando così il fantastereoscopio. Il concetto della
stereoscopia era individuato appieno, purtroppo il mezzo allo stato dell’epoca
era appena in grado di supportarlo e divulgarlo in maniera appropriata. Le
invenzioni stereoscopiche si evolvevano pari passo alle innovazini in campo
fotofgrafico; come si diffondevano le fotgrafie, veniva applicato il principio
della stereoscopia sulle immagini statiche realizzate su pellicola;
rappresentanti di questa tendenza furono, negli anni ’30, dispositivi come il
True-View e successivamente il View-Master, sostanzialmente dei giocattoli atti
ad intrattenere e stupire mostrando dei set di immagini stereoscopiche.
Con la nascita
del cinema negli anni ’20, crebbe, seppur in maniera decisamente contenuta,
anche il ramo del cinema stereoscopico che a fasi alterne sperimentò nel corso
di tutto il ventesimo secolo nuove tecnologie e differenti sistemi di resa
dell’effetto. La prima
proiezione pubblica di un film in 3D avvenne nel 1922 a Los Angeles; Il film in
questione “The Power Of Love” basa la tecnologia 3D sul sistema dell’Anaglifo,
introdotto peraltro dal produttore stesso, Harry Fairall. La tecnologia
dell’Anaglifo in sintesi agisce tramite occhiali dalle lenti colorate che
discriminano le immagini destinate ai due occhi filtrando ciascuno dei due
canali cromatici proiettati sullo schermo; la doppia proiezione avveniva
posizionando lenti davanti ai proiettori in modo da colorare ogni canale,
oppure proiettando due pellicole debitamente virate a monte. Questo primo
affaccio del cinema stereoscopico sul pubblico degli anni ’20 non destò troppo
scalpore, tanto che il film in questione venne riproposto solo in una
proiezione destinata ad espositori e stampa cui seguì il ritiro definitivo dal
mercato. (Hayes, 1998, p. 45) Sempre in quegli anni tentò la fortuna un’altra pellicola in 3D,
“The Man From M.A.R.S.” che in troduce però questa volta una tecnologia nuova
per la rappresentazione stereoscopica: il Teleview. Creato dagli statunitensi
Lawrence Hammond e William Cassidy, il Teleview è da considerarsi come il primo
sistema di proiezione a fotogrammi alternati nella storia del cinema; esso
prevedeva l’utilizzo di visori sincronizzati e collegati all’apparato tramite i braccioli
delle poltrone in sala, dotati di otturatori che venivano aperti e chiusi
alternativamente, creando così una reale immagine stereoscopica senza perdita
di qualità e con il vantaggio di stancare meno la vista dello spettatore.
Sicuramente interessante ma non ancora in grado di affermarsi su un pubblico
forse troppo scettico ed esignete. Inoltre la fine del decennio non avrebbe
portato giorni di gloria al settore dell’intrattenimento che a causa del crollo
della borsa nel ’29 vide arrestarsi gli investimenti e calare l’interesse delle
masse; qualche timido passo avanti da parte dei fratelli Lumiére, nella Francia
del ’33, venne compiuto in direzione della stereoscopia con la riedizione
deigli ormai famigerati cortometraggi che una trentina di anni prima avevano
stupito il pubblico di tutto il mondo: “L’Arrivée Du Train” venne così
riproposto in una versione 3D Anaglifico.
Bisognerà però aspettare la ripresa dell’economia e la fine degli
anni ’30 per vedere nuovamente riproposto lo spettacolo 3D e con a sostegno una
tecnologia completamente rinnovata; ci si riferisce al cortometraggio
commerciale “In Tune With Tomorrow” di John Norling, presentato sfruttando il
sistema della luce polarizzata. Il concetto del filtro Polaroid, sviluppato
qualche anno prima dallo studioso inglese Edwin Land ma applicato al cinema
solo nel 1939, consta in fase di proiezione nell’impiego di un doppio
proiettore le cui lenti sono dotate di filtri polarizzatori, orientati
ortogonalmente uno rispetto all'altro, così da proiettare due immagini
polarizzate diversamente l'una dall'altra. Lo spettatore viene dotato di
occhiali montanti anch'essi due lenti polarizzate, in modo tale che ogni occhio
visualizzi solamente l'immagine ad esso destinata. Altro componente del
sistema, il Silver Screen, particolare schermo sul quale vengono indirizzati i
fasci di ciascun proiettore, predisposto per restituire la luce con la corretta
polarizzazione e garantire una visione ottimale.
E’ interessante notare come già prima dell’età dell’oro del cinema
3D (che si veririfcherà nei successivi anni 50) le tecnologie a sostegno degli
unici film 3D che emergono dal mare primordiale della cinematografia, sono
quelle che ancora oggi rappresentano le basi per la diversa fruizione di
contenuti stereoscopici, ovvero: Anaglifo, Teleview, Polarizzatore. (Hayes, 1998) Le problematiche tecniche legate ad
esse, quali fastidi cusati dal filtro cromatico e dall’alterazione dei colori,
elevati costi dei sistemi Teleview e Polaroid che richiedevano di attrezzare la
sala cinematografica apposta ed in maniera permanente, frenarono comunque il
boom del fenomeno; il pubblico dal suo lato accoglie con stupore l’offerta
dello spettacolo 3D ma non è ancora in grado di determinarne l’affermazione,
anche in riferimento ad un’epoca in cui gli avvenimenti storici mettono in
seria difficoltà quel settore dedicato a beni e servizi di seconda necessità di
cui fa parte lo spettacolo. Durante il corso degli anni ’40 infatti, ogni
ulteriore sviluppo nel campo della stereoscopia viene arrestato dalla Seconda
Guerra Mondiale.
[Section 02]: Età dell’oro (1950-1960, 1986-presente)
Proprio la
consapevolezza delle potenzialità del 3D stereoscopico, unita alla possibilità
di poterlo fruire mediante innovazioni ogni volta più funzionali ed efficaci
verso lo spettatore, ha permesso a questa tecnica di guadagnare periodicamente
nuovi affacci sul panorama dello spettacolo, nel corso del ventesimo secolo. L’età
dell’oro del cinema 3D si apre nel 1952 con l’uscita del primo film
stereoscopico e a colori “Buana Devil”, girato in doppia pellicoca e proiettato
mediante il sistema della luce Polarizzata, peraltro quello utilizzato nella
stragrande maggioranza delle proiezioni di questi anni. Il successo di pubblico
è davvero buono, la critica lo stronca ma si tratta di un lungometraggio
comunque valido dal punto di vista tecnico; l’ascesa del 3D ha inizio: nel 1953
appaiono “The Man In The Dark” e “The House Of Wax”, rispettivamente prodotti
dalla Columbia e dalla Warner Bros, che introducono l’audio stereoscopico e
acquisiscono popolarità al punto da identificare alcune grandi star con il
mezzo 3D, come nel caso di Vincent Price che reciterà in molti film 3D. Si
tratta di una moda prevalentemente Americana. Questi risultati indicano che Gli
Hollywood Studios avevano trovato il fulcro su cui far leva per riportare il
pubblico in sala, strappandolo peraltro alla televisione che in quel periodo si
stava dimostrando un indegno concorrente del cinema: in America gli anni post
conflitto portarono una sorta di recessione artistica e culturale nel cinema
uniformando in maniera marcata i generi, svuotnado i contenuti, allontanando le
forme espressive di stampo sociale di nicchia e d’avanguardia (che non vennero
comunque sradicate, ma rimasero in attesa di rifiorire), per dare ai film
l’impronta del prodotto d’intrattenimento; la televisione dalla sua parte diede
apporto alla trasformazione degli schermi formali e del pubblico abituale in
ambito di temi proposti: trasmissioni televisive commerciali, comedy atte ad
intrattenere e presentare prodotti di consumo, bassezza nei temi proposti e
carenza nei contenuti da imputarsi alla propagazione di massa ed all’ampiezza
del targhet di pubblico; nel 1955 inoltre iniziano le trasmissioni a colori e
la diffusione sempre maggiore degli schermi televisivi è registrata in una
cinquantina di paesi in tutto il mondo. Si comprende come questo fenomeno abbia
una portata in grado di deviare il percorso del cinema, ma senza arrestarlo, al
contrario direzionandolo verso un mutamento ed un’evoluzione non per forza
negativa. (Rondolino, 2006, p. 217)
Non persero tempo
altre Majors come la Universal, la 20 Century Fox, la Metro Goldwin Mayer e la
Walt Disney a buttarsi nella produzione di film stereoscopici, riscuotendo in
generale consensi e successo al botteghino. Se in principio il 3D era destinato
film di serie B horror e di fantascienza, vediamo invece allargarsi il
ventaglio fino a comprendere generi come Il western, la slapstick comedy, il
musical e addirittura il comico e il film d’animazione; dimostrazione questa,
del tentativo di imporre il 3D come standard nel panorama cinematografico, il
tutto ovvimanete incentivato dal riscontro del pubblico. Le critiche di quegli
anni non si dilungano in analisi approfondite e bocciano questa categoria di
film, salvo quelle con fine commerciale che invogliano il pubblico in maniera
sintetica e diretta:
“This seems to be
the 3D flick that most exploits the short-lived medium. An endless array of
stuff comes whiffling at your face – a lit cigar, a repulsive spider, scissors,
forceps, fists, falling bodies, and a roller coaster.”
(The Village
Voice, 1953) a proposito di “The Man In The Dark”
Il primo motivo
di incertezza del fenomeno 3D nell’età dell’oro, si verificò nello stesso anno
del boom, quando l’inverno del ’53 vide l’introduzione del formato anamorfico,
del cinemascope, ovvero il maggiore rivale del cinema 3D in quel periodo. Dal
’54 vengono comunque distribuiti numerosi film stereoscopici che mantengono
alto l’interesse anche per la presenza dietro la macchina da presa di autori
rinomati: Jack Arnold presenta “Creature from the Black Lgoon”, Howard Hughes
gira “Son of Sinbad” e Alfred Hitchcock “Dial M For Murder”.
“Action now can seem, not only to recede into the distance
beyond the opening, but to come forward through the opening.”
(New Screen Techniques, 1953) a proposito di “Dial M For Murder”
L’arresto della
crescita del 3D avviene però nel 1955, quando i produttori non investono
ulteriormente in questa tecnologia, impedendo così da un lato la risoluzione
dei problemi tecnici ancora presenti e causa di malcontento da parte degli
spettatori e dall’altro favorendo e puntando sulla novità del widescreen.
[Section
03]: Ondate di revival (1960-1984, 2003-presente)
Nel corso della seconda metà
del ventesimo secolo le innovazioni significative in campo stereoscopico non
sono state molte. Una prima ondata di revival prende corpo nei primi anni ’60
con la creazone dello Space-Vision 3D, che permetteva di sfruttare le lenti
polarizzate ma con l’ausilio di un solo rullo in fase di proiezione invece che
due distinti. Altra tendenza, quella di far incontrare il formato widescreen
con la stereoscopia, cosa che lentamente si verificò ma sempre mantenendo in
sordina la branca del cinema 3D rispetto al cinema in auge del tempo. Con il
boom degli anni ’80 IMAX impiega poi il 3D combinato con i 70mm; utilizzando il processo sperimentato dal
sistema Space-Vision, gli autori di cinema hollywoodiani, vengono colpiti da
una mania del 3D paragonabile a quella di una trentina di anni prima. Grazie
alla popolarità ottenuta ridistribuendo film come “The House of Wax” e “Dial M
For Murder”, nuovi registi ispirati dall'effetto tridimensionale in grado di
bucare lo schermo, saltano sul carrozzone del 3D producendo film orientati ad
un pubblico più mainstream, di cui si ricordano “Comin’
At Ya!”, “Friday The 13th”, “Amityville 3D”, “Jaws 3D”.
Questa prima ondata si
esaurirà nel 1985 per riproporsi solo nel ventunesimo secolo: nel 2003 James
Cameron, che dimostrerà di avere un interesse particolare per la stereoscopia
anche qualche anno più tardi, produce e dirige “Ghosts Of The Abyss”, primo film per il sistema IMAX 3D ripreso utilizzando
il sistema Reality Camera (che non usa pellicola ma riprende in HDTV digitale).
Seguono nel 2004 “Polar express”, nel 2005 “Chicken Little”, nel 2008 “U2 3D”
(primo concerto divenuto film live action in 3D) e “My Bloody Valentine” nel
2009, per citarne alcuni; allo stato attuale dei nostri anni, le tecnologie
base nate all’inizio del secolo scorso si son specializzate e rinnovate,
qualcuna si è persa, come l’Anaglifo (utilizzato ormai solo per le riproduzioni
in stampa ed in qualche edizione home video), qualcun’altra si è radicata, come
le lenti polarizzate largamente diffuse al giorno d’oggi. Il pubblico è
interessato a qualunque cosa porti novità ed unicità in un sala sempre più
vuota, e ha dimostarto di prestare attenzione ed essere esigente verso le nuove
tecnologie; sarà necessario soddifare questa richiesta proponendo contenuti di
qualità investendo il giusto e sul giusto. Nel 2009 la riscossa del 3D è
agguerrita, risoluta e vede l’uscita di titoli attesissimi, come “Avatar” e
qualche mese più tardi “Alice in Wonderland”, che ottennero risultati
impensabili già solo nel primo weekend di programmazione in USA;
rispettivamente, 77 milioni di dollari su 3.452 schermi per “Avatar”, e 116
milioni di dollari su 3.728 schermi per “Alice In Wonderland”. Due casi
eccezionali di sicuro, ma significativi nella misura dell’affluenza di pubblico
richiamato, mai vista negli ultimi anni. Merito del 3D? (boxofficemojo.com, [online]) Forte delle innovazioni moderne al
servizio di questo effetto e del periodo storico che necessita di un colpo di
spugna deciso per dare respiro al settore, a partire dal 2009 il polmone del
cinema stereoscopico può rimepirsi finalmente d’aria nuova, concedendo ancora
una volta al 3D il tentativo per imporsi come killer application.
Chapter 02: Il 3D come fenomeno nel cinema dell’attualità
Recentemente il fenomeno del
3D nel cinema ha conosciuto una nuova ondata di revival. É un dato di fatto che il concetto della
stereoscopia sia consolidato ormai da un pezzo, tuttavia solo di recente la
tecnologia per mezzo della quale può esprimersi sta assumendo le giuste
caratteristiche per permetterlo. Se è vero che in
un primo momento questo boom del fenomeno lasciava spazio a previsioni che
riportavano questa come tecnologia determinante nel futuro del settore, è
altrettanto vero che nel giro di pochi mesi si son maturate opinioni
diametralmente opposte rispetto alle prime. Dunque, forse anche in questo caso,
come d’altronde sarebbe buona cosa fare in generale, porre la propria visione ad
un estremo della bilancia, non è il modo corretto di affrontare il dibattito:
tenendo quindi in considerazione sia chi da un lato sostiene che il 3D è
l’unica prospettiva futura possibile per la visione di film e conenuti
multimediali, sia chi dall’altro afferma che la forza di questa innovazione si è
già esaurita per lasciare spazio all’ennesima ricaduta, posizioniamoci nel
mezzo per provare a maturare un’opinione il più possibile oggettiva sulla
questione.
[Section 01]: Parallelo con le innovazioni che han trasformato il
cinema
Il 3D è un nuovo motore
per l’innovazione degli gli studios americani, addirittura, come sostiene il
Ceo della DreamWorks Animation, Jeffrey Katzenberg, paragonabile all’invenzione
del sonoro negli anni ’30 o al passaggio dal bianco e nero al colore (Timothy M. Gray, 2010, online); in un’ottica di questo tipo ha senso
ragionare in parallelo con quanto è già accaduto in passato, cogliendo inoltre
l’occasione per introdurre il concetto di “Immigrant Vs Native” come
aggettivazione ad un soggetto.
Un soggetto viene
definito “Immigrant” rispetto ad un sistema condiviso all’unanimità, quando
l’individuo in questione, durante la sua crescita, si trova ad affrontare la
trasformazione del sistema stesso; viene definito invece “Native” quando dalla
nascita si trova ad interfacciarsi a questo sistema in maniera naturale. Un
esempio chiarificatore in ambiemte filmico per la nostra generazione, è
sicuramente il passaggio dall’analogico al digitale; Digital Immigrants sono
coloro che abituati e cresciuti in ambiente analogico, hanno dovuto affrontare
il passaggio al digitale come standard; Digital Natives, invece sono abituati a
considerare il digitale una condizione di partenza. In generale l’individuo
Immigrant compie lo sforzo dell’adattamento che lo porta a comprendere la
dinamica del nuovo equilibrio e le sue regole, ma la visione delle potenzialità
inespresse che accompagnano questa evoluzione, son quasi sempre intuite e
sfruttate dai Natives, che in quanto tali hanno un rapporto e conseguente
approccio diverso rispetto al sistema in questione. In un’ottica di questo
tipo, noi apparteniamo alla categoria dei 3D Immigrant, in quanto stiamo
subendo l’intromissione nelle nostre vite (possiamo dirlo) di questo mezzo, e
lo sforzo che stiamo compiendo rappresenta per l’appunto la nostra ricerca di
una definizione, di un ruolo da attribuire al 3D. I giovani che si affacciano
sul panorama dell’entertainment in questi anni, cresceranno assieme alla
tecnologia del 3D e matureranno inconsapevolmente un rapporto con questa tecnica
sensibilmente diverso dal nostro. E’ anche per questo motivo che forse è
prematuro affermare di conoscere le sorti del 3D allo stato attuale delle cose;
se il panorama oggi alterna vedute a tratti luminose a tratti oscure significa
solo che ci troviamo nel cambiamento di stagione; quello che risulta essere un
passo in principio incerto non per forza sta a preannunciare una caduta, come
ci offre esempio l’esperienza del passato. Il solo fatto che le Majors ed i
colossi High-Tech di tutto il mondo stiano investendo, e non poco, nel 3D, dà
certezze per quanto riguarda la continuità della ricerca e della
specializzazione, quindi la reale possibilità che venga sintetizzato un sistema
di produzione-fruizione definitivo per questa tecnologia; dunque se dal punto
di vista tecnico si intravede un futuro di qualità, perchè non avere fiducia
anche nella qualità dei contenuti? Si tratterà di un processo più lento, ma in
questo senso vale la pena di puntare sulla schiera dei 3D Natives che sapranno
dare sicuramente un contributo essenziale nella definizione del prodotto
stereoscopico, proprio come sta accadendo con i Digital Natives in rapporto al
cinema digitale da qualche anno a questa parte. (Luca
Oddu, 2011, workshop)
Tornando quindi
ad analizzare in parallelo le trasformazioni del cinema, dalla sua nascita ad
oggi, esso ha compiuto un percorso di evoluzione fortemente influenzato dalla
commistione tra innovazioni tecnologiche e stile, genere narrativo. Questi
momenti di grande cambiamento si sono rivelati traumatici per il sistema
poichè, in quanto tali, hanno rivoluzionato non solo il prodotto
cinematografico in senso stretto, quanto tutto ciò che di tecnico, economico,
commerciale, sociale è in rapporto di simbiosi e costante crescita con esso.
Nel 1927 per la prima volta nella storia, una componente sonora è sincronizzata
alle immagini che scorrono sullo schermo. I grandi maestri del film muto di
quell’epoca, che potremmo a questo punto apostrofare come “Sound Immigrants”,
abituati e soprattutto capaci di dialogare attraverso il linguaggio delle
immagini “sorde”, si son trovati in mano, con l’arrivo del sonoro, un’arma a
doppio taglio, capace di arricchire le loro opere, ma anche, se sottovalutata,
di mutilare la componente comunicativa del decoupage, tentandoli con la
comodità di un narratore sicuramente più immediato e semplice da mettere in
campo. (Rondolino, 2006, p. 254) Si provi ad immaginare per esempio “The Lodger” di Alfred
Hitchcock, nella scena in cui è rappresentata la presenza di un uomo al piano
superiore della stanza in cui ci troviamo: nel 1926 il cinema era ancora muto,
e il regista rappresenta questa situazione tramite espedienti di messa in scena
(il lampadario che oscilla) e di montaggio (la sovrapposizione di immagini in trasparenza);
con l’ausilio del suono tutto questo si sarebbe risolto probabilmente tramite
un banale rumore di passi, poichè scegliere questo mezzo significa dare la
priorità all’azione ed ai dialoghi. Vien spontaneo comprendere la differenza
dell’approccio nella rappresentazione in un caso come questo. (Truffaut F., 1983, p. 38) Quei registi
“Sound Natives”, cresciuti cioè quando già il sonoro era stato introdotto, han
svuotato di significato le immagini per farle letterlamente parlare. E si pensi
a tutti quei talk movies e commedie degli anni ’30 e ’40, che peraltro
impazzavano ed avevano successo al botteghino, ma che, improntati secondo i
canoni del film commerciale Hollywoodiano, si dimostravano carenti dal punto di
vista registico ed espressivo rispetto ai predecessori. Può essere considerato
un passo indietro? Un cambiamento di stile, sicuro, ma verso un impoverimento
del linguaggio cimenatografico? Una situazione di mutamento e
adozione di nuovi standard non per forza è sinonimo di migrazione di massa
verso quei nuovi standard: non tutti i regitsi e autori abbracciano subito e
con piacere le novità soprattutto se ancora in fase di sperimentazione. Quel che è certo è che si
è dovuta fronteggiare un’inevitabile trasformazione del sistema, poichè se il regista
dal suo punto di vista artistico ed autoriale poteva preferire o meno il suono
nel suo film, il produttore esigeva l’adozione della nuova tecnica poichè il
pubblico la chiedeva a gran voce. Da questo punto di vista il cinema ha
beneficiato di una forte spinta e crescita come fenomeno sociale, per cui non
si può parlare di passi indietro in maniera assoluta. Successivamente, la
conseguenza degli investimenti atti a rendere il suono uno standard diffuso, ha
permesso a questo di essere oggetto di studio e raffinazione dal punto di vista
sia tecnico quanto artistico, fino ad amalgamarlo degnamente e definitivamente
nel processo di costruzione del film, processo questo, compiuto dalla
generazione dei Natives.
Ecco dunque
perchè possiamo ritenere che quanto sta verificandosi nel panorama del cinema
attuale riguardo al 3D, è un processo ancora in fase di definizione; come
insegna il passato, il 3D ha tentanto di affermarsi numerose volte, senza
successo, e questo è un voto di sfiducia; altrettanto vero però è che il
continuo riproporsi nella storia del cinema è dovuto alle enormi potenzialità
di tale effetto, e questo è un voto di fiducia; considerando che ogni tentativo
nel tempo aggiusta sensibilmente la mira, non bisogna escludere che questa sia
la volta buona per centrare il bersaglio.
[Section 02]: La reazione del settore cinematografico oggi
La parabola del
cinema stereoscopico, dal 2003 ad oggi, ha visto l’andamento di curve
differenti, momenti in salita e altri in discesa; dapprima pochissimi titoli proposti
timidamente all’inizio del secolo, “Viaggio al centro della terra 3D”, “Spy
Kids 3D”, “The nightmare before cristhmas 3D”, quasi destinati ad un targhet di pubblico esclusivamente giovane,
ma che riscossero consenso. Nel 2008 l’effetto viene applicato ad altri generi
(es. l’horror “My Bloody Valentine”), confermando l’interesse e preparando il
terreno per l’arrivo nell’anno successivo di titoli dal notevole potenziale:
l’appeal sul pubblico è tanto efficente quanto efficace e lo dimostrano studi e
ricerche sul trend del fenomeno:
The European Audiovisual
Observatory has released its first estimates for European cinema attendance in
2009. The Observatory estimates that total admissions in the European Union
increased to about 985 million tickets sold. In a difficult economic
environment this represents impressive 6.5% growth year-on-year and the highest
admissions level since the record-breaking result in 2004.
(3Dvision,
2010, p.4)
Nel numero di febbraio 2010 della news letter edita da Sony sul tema del 3D, si legge che l’International 3D Society ha
pubblicato uno studio sull’andamento del cinema 3D che mostra chiaramente come
gli spettatori nel weeknd scelgano lo spettacolo 3D rispetto a quello 2D con un
rapporto 2:1, e conseguenti netti margini di ricavo. La relazione dimostra come
nel caso dell’usicta di “Alice in Wonderland”, il 70% dei biglietti venduti nel
weekend di esordio del film erano per lo spettacolo in 3D; ancora più
significativo l’80% di pubblico che sceglie la versione stereoscopica di
“Avatar”, sempre nel primo weekend di programmazione. Dunque nel 2010 il
presidente dell’International 3D Society aveva ragione ad affermare: "While
this study is just a snap shot of what opening weekend's 3D grosses look like,
these kinds of trends do reflect that consumers are obviously thrilled by
3D." Il solo fatto di proporre film in 3D batsava a confermare una
massiccia affluenza in sala e di conseguenza per effetto del rincaro del
biglietto anche a garantire degli introiti assolutamente interessanti rispetto
alle medie del nostro tempo.
Dal 2011, al
contrario, si riscontra un atteggiamento mutato da parte del pubblico: la
possibilità di vedere un film con gli occhialini viene quasi percepita come
un’opzione, e nemmeno troppo allettante nè ormai più vista come una “novità”.
Un comportamento come questo trova una spiegazione plausibile in vari ambiti,
che vanno dalla qualità del prodotto offerto (in termini di scelte di
produzione, e postproduzione), alla mera tendenza che spinge lo spettatore ad
orientarsi passivamente verso qualcosa a cui tutti fanno o meno riferimento. Il sopracictato Jeffrey Katzenberg, assieme a James Cameron, uno dei promotori e
dei pionieri più convinti del 3D
di nuova generazione, con amarezza, ammette nell’exclusive
Q&A del 2010 con Pamela McClintock, che la nuova tecnologia, a
soli due anni dal boom, si trova già in una fase discendente.
“I think 3D is right smack in the
middle of its terrible twos. We have disappointed our audience multiple times
now, and because of that I think there is genuine distrust whereas a year and a
half ago, there was genuine excitement, enthusiasm and reward for the first
group of 3D films that actually delivered a quality experience. Now that's been
seriously undermined. It's really heartbreaking to see what has been the single
greatest opportunity that has happened to the film business in over a decade
being harmed. The audience has spoken, and they have spoken really loudly.”
Il pubblico lamenta la mancanza di qualcosa di nuovo negli
ultimissimi spettacoli 3D oltre a percepire, anche se non sempre in maniera
consapevole, una carenza di qualità a fronte di un biglietto dal costo comunque
elevato. Katzenberg risponde allo spettatore con una lungimiranza che ci fa
comprendere il motivo della sua posizione di CEO alla DreamWorks Animation
Studios, senza peccare di quella comprensione e responsabilità che lui stesso
ed i suoi colleghi-concorrenti del settore hanno nei confronti sia del pubblico
quanto del sistema; quando l’argomento di protesta verge sul costo del
biglietto, Jeffery risponde:
“Here's the thing: We are giving our audience a choice. We didn't
take a plane and convert it to all first class. To people who say there is
price pressure, or price sensitivity, even in the family market, I say,
"OK, that's why we have continued to support a 2D format and made sure
that the 2D movie we're delivering today is better than the movie we delivered
two years or three years ago." Quite frankly, there's no industry in the
world that doesn't attempt to move up the customer to a premium experience. I
don't care whether you make shoes or wine or iced tea or cars, everybody tries
to create multiple price points. So why shouldn't we be in the same business of
offering our customers a premium experience at a premium price as long as we
deliver them a premium value? If we cheat them, which is what has happened now
too many times, then they'll walk away from it.”
Una argomentazione come questa non
necessita di ulteriori argomenti a favore. La ragione al consumatore, invece
nel momento in cui lamenta la percezione che il prodotto pecchi di pregio,
anche senza conoscerne il motivo; la qualità sarebbe andata
scemando secondo Katzenberg
soprattutto a causa della diffusione del 3D convertito, ovvero delle pellicole girate in 2D e rimaneggiate
solo in fase di post-produzione, contro
il quale si sono battuti sia lui che altri fautori della nuova ondata
3D. Fatto sta che fino a poco tempo fa il trend 3D sembrava inarrestabile e
negli ultimi mesi le case di produzione hanno messo in cantiere una valanga di
film 3D che hanno invaso le nostre sale e continuano a farlo. Mettendo
da parte per ora il caso di “Avatar”, film unico e forse irripetibile esempio
di 3D d’altissimo livello, sono stati distribuiti film nel formato stereoscopico
decisamente non all’altezza, a partire dall’altro grande successo, il già
citato “Alice in Wonderland”, girato non in 3D nativo, ma riconvertito in
seguito. Il punto della questione verge proprio sul risultato mediocre della
riconversione dei film 3D. La riconversione (trascodifica, o
dimensionalizzazione) è il processo mediante il quale ogni frame di un
lungometraggio, viene analizzato per isolarne i piani che lo compongono; una
volta definiti questi, il frame viene letteralmente ritagliato ed I piani
separati vengono ricostruiti e disposti a profondità diverse, poi tramite un
apposito software elaborati per ricreare l’effetto della visione stereoscopica.
Il processo, oltre ad essere parecchio dispendioso in termini di tempo e costi,
presenta dei risultati a conti fatti mediocri. Il malcontento deriva sia
dall’approssimazione dell’effetto, che non potrà mai essere paragonabile ad una
ripresa stereoscopica nativa, sia dal fatto che riconvertire una regia non
pensata per il 3D, non aggiunge altro che un pò di profondità all’inquadratura,
ma nulla allo stile, alla messa in scena, alla narrazione. E questo si
percepisce, soprattutto a confronto di quei film dove il 3D è impiegato con
cognizione. La trascodifica è il più delle volte un mero espediente per gonfiare
gli introiti. Un esempio lampante di questa strategia errata è riscontrabile in
quanto avvenuto con la riconversione di “Clash of The Titans”, continua
Katzenberg:
“We've
seen the highest end of 3D in "Avatar" and you have now witnessed the
lowest end of it in "Clash of the Titans". You cannot do anything
that is of a lower grade and a lower quality than what has just been done on
it. So the issue is actually about what that movie represents, a different
experience. And in my opinion, one that, if replicated, and becomes the
standard, is the end of 3D.”
Ma in che modo queste riconversioni soffocherebbero
il fenomeno 3D? Nel momento dell’avvento del sonoro, moltissimi film furono
sonorizzati in fretta e furia per abbracciare le tendenze del momento, e il
sonoro non si perse in solo fumo nel giro di pochi anni. Il motivo del timore
va ricercato nel concetto dell’offerta premium: richiedere di pagare per un
contenuto di qualità premium ed offrire qualcosa decisamente al di sotto delle
aspettative oggettive non può che portare ovviemente il cliente a non scegliere
mai più quel prodotto premium; la questione del 3D convertito è paragonabile ad
un film in bianco e nero, ricolorato, e ridistribuito a prezzo maggiorato;
oltre al fatto della regia che sarebbe pensata per il bianco e nero bisogna
aggiungere il risultato mediocre di una ricolorazione e il rincaro del
biglietto: uno spettatore non potrebbe che restarne insoddisfatto. In
quest’ottica il 3D crollerebbe di conseguenza alla fuga del pubblico, che non
comperando I biglietti, non apporta introiti e causa il collasso del sistema. Giusta
quindi sotto questa luce la tendenza della massa. Gli studios stanno puntando
sempre di più sul formato stereoscopico: se nel 2009 rappresentava una novità
di cui la gente era curiosa ed entusiasta di poter usufruire, la crescita
esponenziale di film tridimensionali in uscita ha annacquato decisamente
l’offerta; in alcuni periodi si è verificato un vero e proprio intasamento di
film tridimensionali che gli spettatori han cominciato a disertare.
In Italia, ad esempio, per l’inverno 2011, sono previsti una
ventina di titoli 3D (che verranno distribuiti comunque in parallelo alle
versioni 2D), tra cui Hugo Cabret,
firmato niente meno che da Scorsese.
Gli schermi tridimensionali in Italia sono passati dai 40 di fine
2008 a ormai oltre 860 nel 2011, aspetto che permette di gestire l’uscita in
contemporanea di più film tridimensionali come richiesto a più riprese
dall’industria hollywoodiana che ha puntato molto sul 3D; lo si può vedere dal
numero di film stereoscopici usciti dal 2009 al 2011: sono stati 10 nel 2009,
23 nel 2010, erano già 19 a fine luglio 2011 e a fine anno saranno 37. (bestmovie.it, [online]) Volendo definire il cinema, oltre che come fenomeno sociale, come
un’arte ci troviamo a scindere due componenti distinte dell’ambito
cinematografico: un piano artistico, ed un piano economico; partendo dal
presupposto che in generale è difficile assegnare un valore monetario ad un
bene artistico, è chiaro invece come questo sia sottomesso al valore che
inevitabilmente si cerca di attribuirgli. Suddetto valore è però la spinta che
il più delle volte fa la differenza sulla bilancia: se un regista guarda al suo
film come alla “concretizzazione” di un percorso, al raggiungimento di uno
stato artistico e concettuale, un produttore oltre a questo, vede il più delle
volte un ritorno economico; ritorno che sarà tanto maggiore quanto migliore
sarà il valore del prodotto. E questo valore intrinseco del prodotto filmico,
che alla fine dei conti si traduce nel prezzo del biglietto per lo spettatore,
fa la differenza sulla decisione di quest’ultimo nell’andare a vedere il film,
quindi l’offerta di qualcosa di speciale giustificha la spesa; tutto ciò si
traduce infine nella volontà da parte di chi finanzia di voler sfruttare al
massimo le innovazioni, e da parte di chi dirige, di dover stare al passo coi
tempi. Va riconosciuto che in un brevissimo lasso di tempo il 3D ha fatto
guadagnare produttori, distributori ed esercenti. Ora, però, è necessario non
disperdere e svilire quanto guadagnato, non solo economicante parlando, e fare
in modo che il cinema tridimensionale continui ad essere una risorsa in grado
di rinforzare il mercato agendo in maniera corretta e soddifando cioè il
consumatore.
Dunque il 3D è
un treno che il cinema di oggi rischia di perdere; ma la cinematografia non è
l’unico ambito in cui può essere sfruttato materiale stereoscopico: la TV sta
investendo moltissimo in questa tecnologia, da chi produce I contenuti, a chi i
supporti per poterli usufruire; giocano un ruolo di rilievo i colossi Hi-Thech
che non han perso tempo ad avviare una massiccia produzione di beni di tipo
consumer per l’home entertainment compatibili con il 3D: dai televisori 3D
ready, ai lettori Blu-Ray3D agli stessi supporti Blu-Ray3D. Un cavallo su cui
puntare per la penetrazione di broadcast stereoscopico sono i contenuti
sportivi, tanto per la capacità del prodotto in sè di trovare sempre consenso
nel pubblico, quanto per l’efficacia dell’applicazione dela terza dimensione:
praticamente qualunque tipo di sport gioca sulle geometrie ed I rapporti tra
gli spazi, la resa prospettica è importante e la profondità che si raggiunge è
efficace, riesce ad esaltarla, e rendere il contenuto davvero innovativa e
attraente per lo spettatore. Un
altro genere televisivo che riscuote successo per la resa dell’effetto 3D è il
filone del documentario, soprattutto quello appartenente alla fascia tematica
della natura, degli esseri viventi, delle scienze, della cultura. Paradossalemente
ma anche comprensibilmente, l’effetto è migliore làddove I contenuti non sono
troppo elaborati e atti a creare stupore, qunto invece semplici nel loro
mostrare e ripodurre una realtà. Con la questione TV e Home Video però, si
aprono letteralmente altri orizzonti e spunti di dibattito che esulano dal
focus del nostro interesse.
Chapter 03:
3D State of the Art
“It’s
‘back to the future’ for stereoscopic 3D. The difference now is that digital
technologies have made many of the issues associated with the 3D format of the
50’s go away. For instance film wave on each eye and anaglyph viewing have been
supplanted by high resolution, rock-steady images, courtesy of high viewing
technology that allows color values to remain unaffected. Those latter-day advancements
have rekindled interest in stereo 3Dsortytelling for both theatrical and
broadcasting television applications. The question is, with the growing
popularity of 3D viewing technology in films and games how can content be
created easily and affordably in high quality range?”
(Michael Lindsay, 2009, p. 3)
Oltre a ricercare
un modo facile e sicuro per produrre contenuti stereoscopici, è importante che
questi siano di qualità; un parametro di questo tipo implica che il processo di
produzione venga portato avanti da professionisti capaci, menti tanto creative
quanto razionali, artisti digitali e da ora artisti del 3D. Andiamo a vedere più in dettaglio come
avviene il processo che porta alla realizzazione concreta di un film 3D. Per
effetto della specializzazione che stanno subendo le tecnologie utilizzate, le
regole teorico-pratiche delle produzioni 3D continuano a mutare; tempo viene
speso nella ricerca da parte degli addetti ai lavori, e prove su prove, con il
fine di sintetizzare il workflow ideale per la specifica produzione, ma anche
per condividere la risoluzione di imprevisti e problemi comuni; il settore
cresce unito nella competizione.
[Section 01]: Fattori determinanti
Come spiega Bernard Mendiburu, nel suo volume “3D Movie Making” del 2009, per cominciare il percorso bisogna delineare quelle
caratteristiche, quegli elementi che concorrono a condizionare e connotare il
meccanismo di resa della profondità. E’ possibile distinguere parametri
basilari ed elementi che invece si rapportano di conseguenza ai primi all’interno
di questo sistema.
Stereo
Imaging, due immagini separate: abbiamo detto
che l’immagine stereoscopica si ottiene tramite la fusione di due immagini
separate caratterizzate da due punti di vista leggermente differenti rispetto alla
stessa scena. Dunque in fase di ripresa questa condizione necessaria si traduce
nell’utilizzo di due macchine da presa posizionate poco distanti l’una
dall’altra in maniera funzionale a simulare l’apparato visivo umano e il suo
sistema di ricezione della luce. Ne risulta che avremo una doppia ripresa, con
una doppia esposizione, e l’aspetto importante che rende efficace l’effetto è
la relazione tra queste due immagini: "It’s the relationship between
the two. The way they are matched makes the 3D effect.” (Bernard Mendiburu, 2009, p. 47)
Parallax, parallasse: è
il fenomeno per cui un oggetto sembra spostarsi rispetto allo sfondo quando
cambia il punto d’osservazione. Se prendiamo ad esempio due frame
consequenziali, in cui abbiamo un oggetto, lo sfondo ed un movimento di camera
laterale, la distanza fra le due posizioni dell’oggetto nei due frame è detta
parallasse. Pur essendo sia l’oggetto che lo sfondo, fermi, per effetto del
movimento di camera avremo l’impressione che questi scivolino sul loro piano
nello spazio con velocità diverse.
Active
& Passive Depth, profondità
attiva (PA) e profondità passiva (PP): prendiamo come riferimento il piano sul
quale avviene l’azione (che può essere identificato con lo schermo della
proiezione 3D), gli elementi che percepiamo andare in profondità, all’interno
del quadro, dentro lo schermo, appartengono alla porzione di profondità
definita passiva; al contrario quegli elementi che bucano lo schermo, venendo
verso di noi, si muovono nella profondità attiva. Una regola formale che
scaturisce dalla distinzione tra PA e PP riguarda l’azione della scena: durante
il corso della rappresentazione, l’azione è bene che si svolga per la maggior
parte del tempo in PP e che solo in determinati momenti, picchi dell’azione
appunto, si sposti nella PA; non si tratta di una costrizione tecnica, quanto
di un accorgimento funzionale alla regia, poichè la PA condiziona fortemente il
susseguirsi degli stacchi e crea vertici nel climax dinamico della scena.
Inoltre bisogna sottolineare che quando ci si trova nella profondità attiva è
importantissimo rimanere con il soggetto-oggetto all’interno del quadro: nel
momento in cui si va a ”toccare” questo limite rappresentato fisicamente dal
perimetro del frame, l’effetto dell’oggetto che buca lo schermo viene a
perdersi immediatamente lasciando spazio ad un’immagine dalla profondità
mutilata e sgradevole alla vista. Le proprietà fisiche che determinano le
dinamiche della profondità attiva e passiva sono la convergenza degli assi e la
distanza fra gli assi dei due obiettivi.
Convergence, la convergenza
degli assi: nel sistema visivo umano, gli occhi hanno uno stesso punto di
convergenza, guardano cioè entrambi verso un punto in una porzione di spazio
limitata ad una distanza ben definita. Verosimilmente quando l’attenzione si
sposta verso un altro punto di interesse, questa convergenza varia conseguentemente.
Capire la dinamica di questa proprietà è fondamentale per inquadrare e
delineare in maniera chiara anche gli altri fattori che contribuiscono a
definire l’effetto: se gli assi delle due camere sono disposti parallelamente,
l’immagine 3D risultante si svilupperà a partire dallo schermo verso di noi,
nella aprofondità attiva; più andremo a convergere gli assi tra loro e
maggiormente spingeremo le immagini in profondità all’interno dello schermo,
nella profondità passiva. La convergenza nell’immagine può essere modificata
anche in fase di post.
Interocular Distance, la distanza fra
gli assi (IO oppure IA): nella visione binoculare
umana, gli occhi si trovano ad una distanza ben definita che tradotta nel
sistema di ripresa è la distanza fra i due obiettivi. Questo valore non
rappresenta una grandezza fissa, tant’è che una sua variazione in fase di
ripresa si traduce in una resa dell’effetto della profondità più o meno
accentuata, o comunque differente. Allontanando le due camere, il soggetto si
staccherà sempre più dallo sfondo, quasi crescendo, mentre avvicinandole si
rimpicciolirà perdendo profondità fino al caso limite in cui le ottiche vanno a
coincidere ed avremo un solo “occhio” ed un’immagine di conseguenza piatta.
Aumentare o diminuire la IO equivale ad allargare o restringere il range fra
gli estremi delle PA e PP. La scelta di modificare la distanza fra le ottiche,
adottando comunque valori non troppo distanti fra loro, è una scelta di tipo
tecnico artistico, legata alla categoria delle ottiche impiegate e si traduce
nelle necessità di rendere delle scene con una prospettiva e una profondità
particoalri, a seconda del tipo di comunicazione che si vuole instaurare con lo
spettatore. Importante aggiungere che la IO non e possibile modificarla in fase
di post.
Occlusion, l’ occlusione:
la posizione degli oggetti inanimati e animati, all’interno del quadro ha
importanza nel momento in cui questi si dispongono sulla stessa linea ma a
profondità diverse, andandosi a sovrapporre l’uno con l’altro. La relazione che
viene a crearsi tra tali elementi comporta la differenza che risulta tra le due
immagini che si andranno a riprendere. Banalmente se mettiamo una mano poco
distante dal viso e proviamo a chiudere alternativamente gli occhi, ci
accorgeremo di come l’immagine vista dall’occhio destro sarà diversa da quella
vista dal sinistro in particolare per quanto riguarda la posizione della nostra
mano rispetto allo sfondo e all’interno del quadro della visuale. Questa
relazione permette al nostro sistema percettivo di cogliere con estrema
sicurezza la posizione degli oggetti nella scena. E’ in questo senso dunque che
l’occlusione degli gli elementi scenici ha un peso non trascurabile nella
costruzione del quadro, e deve essere una scelta ponderata in maniera attenta
in fase di progettazione dell’immagine stereoscopica finale.
Dimensione prospettica: anche conoscere
le dimensioni, l’ingombro nello spazio di un oggetto o di un’entità presente
nella scena ci conducono automaticamente a collocarlo in maniera coerente nello
spazio scenico, ed a rapportarlo in egual modo agli altri elementi. Se non si
conoscono le dimensioni o non è possibile dedurle verosimilmente, risulta
difficile che questo automatismo del nostro sistema percettivo si manifesti.
Geometrie prospettiche: in maniera
analoga a quanto succede per le dimensioni, anche le forme degli oggetti e le
geometrie degli spazi, ci permettono di collocare I vari elementi in gioco
coerentemente nella scena; lo studio delle geometrie può risultare davvero
efficace per la resa della profondità tanto che la scelta di costuzioni
prospettiche ingannevoli o troppo articolate può compromettere l’immediatezza
della leggibilità del quadro e minare l’attenzione dello spettatore rovinando
così l’effetto “immersione”, che è uno dei punti forti dei film in 3D; inoltre in
questi casi c’è la possibilità che si vengano a creare sensazioni di
smarrimento in quanto il processo con cui il cervello ricrea la prospettiva
risulta più complicato e richiede un maggiore sforzo.
Fuoco prospettico: Quando
guardando un paesaggio, focalizziamo l’attenzione (ed il termine non è usato a
caso) in una frazione del piano ad una determinata distanza, inconsciamente ci
aspettiamo che la porzione tra noi ed il punto di interesse, e la porzione
oltre il punto di interesse, risultino fuori fuoco. Questo fenomeno ottico
dipende dall’obiettivo impiegato in fase di ripresa, si manifesta nelle immagini
statiche, dinamiche ed è fortemente accentuato in quelle stereoscopiche, nonchè
direttamente influenzato dalla convergenza in queste ultime. Sebbene ci sia una
connessione intuitiva, il fuoco prospettico non va confuso con quel fenomeno,
di natura più atmosferica che ottica, per cui osservando un paesaggio esteso si
percepisce come aumentando la distanza da noi, i vari piani risultino in
lontananza sempre più offuscati, desaturati ed omogenei. Esso è dovuto al
crescente inspessimento e alla sovrapposizione dei mateirali sospesi nell’aria,
che nelle lunghe distanze vanno a velare sempre più la visuale, senza che venga
influenzato dall’obiettivo dell’osservatore.
Pattern: Il pattern di
un oggetto è la sua texture, ovvero la “pelle” con cui ci appare, lo strato
superficiale di cui percepiamo le caratteristiche fisiche con il solo utilizzo
degli occhi; riconoscere il pattern di un oggetto e ricollegarlo mentalmente a
proprietà che già conosciamo, secondo un processo coerente alla nostra
esperienza, ci aiuta in maniera involontaria a relazionare l’oggetto intero
alla scena. Riconoscere il colore, il modo di riflettere la luce, di
rifrangerla o filtrarla, di assorbirla, di interagire con la superficie di
altri oggetti, fanno del pattern di ogni elemento un degno biglietto da visita
per la sua comprensione formale all’interno della scena. Mano a mano che ci si
allontana dall’oggetto in questione il suo pattern diventa più piccolo e fine.
Anche in questo caso è necessario porre attenzione alla scelta del modo di rappresentare
la superficie degli oggetti, tenendo conto della loro interazione reciproca e
con al luce dell’ambiente.
Come è intuibile,
la parola chiave dell’effetto 3D fra quelle viste è la parallasse; essa
determina le dinamiche che caratterizzano maggiormente la profondità, assieme
alle proprietà che stanno invece alla base del processo di ripresa
stereoscopica, ovvero la convergenza e la distanza interasse, che combinate fra
loro regolano la profondità attiva e passiva; le rimanenti giocano un ruolo nella
parte di messa in scena e costruzione del quadro; è comunque importante che
tutte queste caratteristiche lavorino assieme in maniera coerente e
costruttiva. Dunque una volta forti di queste nozioni, è tempo della
preproduzione cioè della progettazione e organizzazione di quello che si vuole
girare.
[Section 02]: La fase più importante: la preproduzione
Nella fase di preproduzione
del contenuto 3D la cosa più importante, e ovvia, è cominciare fin da subito a
“pensare in 3D”, tenendo cioè sempre conto di cosa comporta la scelta della
stereoscopia in ogni ambito della produzione. Dimenticarsi o prestare poca attenzione
a questa caratteristica e comportarsi come se si stesse progettando un film 2D
è assolutamente controproducente. Ogni reparto è influenzato, coinvolto e deve
fronteggiare un iter differente rispetto al 2D; non bisogna pensare che il 3D
sia una semplice aggiunta nel percorso produttivo, è un mezzo che richiede un
approccio diverso e presenta problematiche nuove soprattutto quando si lavora
con una crew che affronta questa sfida per la prima volta. Anche le fasi di
scrittura della trama e stesura della sceneggiatura devono tenere conto della
presenza del 3D e prevedere quindi di andare incontro a questa condizione nel
modo più funzionale possibile sia per predisporre e sfruttare al meglio la
tecnica, sia per giovare alla narrazione stessa. Il 3D va trattato con lo
stesso peso con cui si sceglie la linea cromatica del film, la fotografia ma
anche il sound design, e quant’altro; è necessario decidere la profondità che
si vorrà raggiungere, anche in realzione agli interpreti, formulando quindi per
esempio un trattamento particolare per determinati personaggi, ma anche in
funzione di eventuali effetti speciali, compositing o elementi da aggiungere in
seguito; l’integrazione del 3D nel processo di concept è dunque essenziale.
L’analisi dell’ambito registico in particolare, permette di comprendere perchè
la fase di progettazione ricopre l’importanza suddetta: un piano dettagliato si
richiede per avere chiara e definita la sequenza di shooting ancor prima
dell’inizio delle riprese. Una delle problmeatiche della fase di ripresa
stereoscopica infatti riguarda i tempi tecnici necessari per la preparazione dell’apparato sul quale vengono montate e
calibrate le camere, detto rig, e la regolazione dei valori
fondamentali delle ottiche; un altro inconveniente è rappresentato dalla
notevole massa del sistema rig+camere+supporto+tools in aggiunta: la
complessità di questo apparato lo rende delicato, e poco flessibile
nell’utilizzo.
“With
3D capture, the ability to shoot jazz style, off-the-cuff, wasn’t possible. We
did have spontaneity, but within the context of having to figure out how to do
it in the third dimension. Spontaneous decisions sometimes proved to be
impractical.
The challengebecame how to adopt the 3D technology and make it flexible enough
for amovie of this scale.”
(Darius Wolski, 2011, p. 38)
a proposito di “Pirates of
Caribbean: on Stranger Tides”
Il rig 3D nella sua impostazione standard prevede gli
obiettivi disposti Side-by-Side, cioè sulla stessa linea, proprio come nella
visuale umana. Ora, spiega Ira Tiffen nel suo articolo sulle “ottiche nel 3D” (2011, p.
54), la disposizione Side-by-Side non
consente per questioni legate alle dimensioni fisiche delle camere affiancate,
di diminuire la distanza interasse fra gli obiettivi al di sotto di determinati
valori, pur bassi che essi siano: ne risulta la
difficoltà di riprendere scene in cui il soggetto è all’interno dei 2.2 metri di
vicinanza alla camera. Un “inconveniente” di questo tipo, làddove è necessario
scendere sotto determinati valori di IO, trova soluzione con l’adozione di una
disposizione differente delle camere sul rig e l’introduzione del Beam
Splitter: questa innovazione altro non è che un dispositivo ottico in grado di
dividere il raggio di luce in due parti; solitamente è composto da una coppia
di prismi uniti alla base, o da un piano trasparente con inserite lamine
riflettenti; posizionando gli obiettivi delle camere perpendicolarmente invece
che parallelamente, e puntandoli verso il Beam Splitter, anche la camera in
perpendicolo rispetto alla scena riceve la giusta prospettiva stereoscopica. La
disposizione ortogonale consente inoltre, di avvicinare le due camere per
raggiungere valori molto bassi di quella che è una distanza interassiale
derivata e non effettiva, ma che ne ricopre il ruolo a tutti gli effetti. Si
può considerare questo come un degno esempio di come le problmeatiche
riscontrate nel percorso di “rodaggio” della ripresa, vengano superate aiutando
l’evoluzione interna del sistema stereoscopico.
Decisioni non sufficientemente
soppesate, scelte sbagliate a monte, minano irreparabilmente la bontà del 3D e
incidono significativamente sul rapporto costo-qualità-tempi. Un banale
cambiamento di sorta dell’ultimo minuto costringe a rivedere l’impostazione di
tutta la scena, e quindi riportare in campo ogni reparto perchè appronti il set
di conseguenza alle modifiche. In questo senso si può affermare che l’impiego
della stereoscopia limita la creatività del momento, fenomeno caro a molti
registi, attori e perchè no anche al pubblico. Può succedere inoltre che la
scena, una volta vista in fase di montaggio, non risulti “riuscita” o comunque
poco efficace prettamente dal punto di vista 3D, causa progettazione errata
della stessa, e che quindi vada rigirata in toto.
Nel film della Walt Disney Pictures, “Pirates of Caribbean: on Stranger
Tides”, è possibile notare una scena che non sfrutta per nulla le
potenzialità del 3D, la cui costruzione va altersì ad impedire l’espressione di
tale effetto: si tratta di un dialogo tra due personaggi; partendo dal peso
degli elementi nelle inquadrature, la regia sceglie di rimanere sul primo piano
alternato fra I due interlocutori, gestendo però male la relazione tra il
soggetto ed il quadro, in quanto va a tagliare la figura del primo rovinando la
profondità attiva; in aggiunta, il background omogeneo e privo di ulteriori
piani non aiuta nell’estensione della profondità passiva, così come la mancanza
di qualunque movimento di camera che non sfrutta così l’effetto di parallasse;
in ultimo la monocromia di una
fotografia molto cupa e velata, che non punta sui contrasti, non
contribuisce a risaltare la fisicità dei soggetti rispetto alla scenografia.
In questo frangente di
prgettazione si affronta anche la spinosa questione del 3D nativo o della riconversione:
come si è visto questa tecnica di passaggio dal contenuto 2D in 3D presenta
evidenti svantaggi; se però la decisione è presa a monte della produzione (e
non all’ultimo momento con la fretta di voler adattare un film concepito in 2D
solo per distribuirlo anche nel circuito tridimensionale) si ha il tempo ed il
dovere di organizzarsi per girare consapevoli che il passaggio successivo sarà
la trascodifica; dunque girare con cognizione: tenere presente ad esempio che
il fuoco prospettico nell’immagine 2D rappresenta la profondità nell’immagine
3D, e quindi ragionare sulle diverse ottiche da impiegare in ripresa; prevedere
movimenti di macchina in modo tale che il processo di dimensionalizzazione vada
ad esaltarli correttamente; concepire una fotografia con una buona profondità
già nella versione 2D, con buoni contrasti, colori vividi e tanta luce. Non è
corretto dunque associare il concetto della riconversione ad un risultato per
forza di bassa qualità, si tratta di una tecnica con pregi e difetti e se usata
in maniera corretta garantisce I suoi risultati.
La prima inquadratura in
“Avatar” è un primissimo piano del protagonista sdraiato in una capsula criogenica.
La costruzione di questa scena rendeva tanto impossibile quanto inutile tentare
una ripresa stereoscopica, sia per una questione di agibilità a causa
dell’ingombro dell’attrezzatura stessa, sia per la mancanza di profondità tra il
viso e lo sfondo nel primissimo piano. In questo caso la ripresa è stata fatta
in 2D e la dimensionalizzazione è avvenuta in fase di post, con l’aggiunta
peraltro di elementi sospesi nell’aria che contribuiscono ad accentuare la
profondità tra i piani decisamente ravvicinati di questa inquadratura. In
questo caso James Cameron ha sfruttato la tecnica di riconversione solo dove si
dimostrava davvero necessaria e forse addirittura la scelta migliore rispetto
ad una ripresa stereoscopica nativa, per le caratteristiche sopracitate
dell’inquadratura di questa scena.
(Luca Oddo, 2011, Avatar)
Un altro caso rappresentativo
di utilizzo ragionato del processo di trascodifica lo possiamo riscontrare
nella produzione di “Alice in Wonderland”, altro kolossal 3D. Per questa produzione, come racconta il direttore
della fotogafia Darius Walski nell’uscita di aprile di
American Cinematographer, lo stesso Walski assieme al regista Tim
Burton, hanno dedicato parecchio tempo a studiare il 3D nel tentativo di
individuare la strada di impiego migliore per il loro film. La scelta del 3D
nativo avrebbe sicuramente aiutato nell’intento di immergere lo spettatore in
un mondo fantastico, come insegna Cameron, ma all’ultimo momento gli autori di
Alice hanno optato per la riconversione in fase di post; decisione presa a
fronte dei tempi tecnici che avrebbero richiesto le riprese in nativo, dei
costi, nonchè dal fattore compositing: l’80% del film era stato concepito per
essere girato in green screen, dunque le riprese avrebbero reso il Foreground,
mentre il Background sarebbe stato aggiunto successivamente. Grazie agli studi
e alle ricerche compiute, Walski era in grado di gestire correttamente la
convergenza e la distanza interasse anche in fase di post-dimensionalizzazione,
dunque anche in questo caso si può dire che la decisione della riconversione ha
senso (malgrado I risultati), anzi non si tratta nemmeno più di una
riconversione in coda al film, quanto di un ampio processo di compositing 3D.
“We
studied examples of 2D movies that had been turned into 3D and agreed the
results looked amazing, so, at the last minute, we decided to achieve 3D in
post. But the tests we shot with the 3D rig were helpful, because they enabled
us to understand the whole concept of convergence, how to design the space and
so on. They helped keep a 3D image in the back of our minds while we were
shooting.”
(Darius Walski,
2010,) a proposito di “Alice in Wonderland”
Non c’è una strada giusta o
sbagliata per ottenere il 3D, ci sono metodi differenti, più o meno funzionali
alla scena che si vuole ottenere, all’effetto che si ricerca. In questo
frangente si vede nascere una nuova figura professionale che affianca I vertici
nella produzione: lo stereografo, sostanzialmente un esperto di calcolo tridimensionale
il cui compito è quello di seguire il regista e il direttore della fotografia,
ma anche l’operatore, per guidarli nel percorso di progettazione e ripresa 3D;
la sua mansione prevede la definizione dei confini della tridimensionalità,
deve cioè comunicare costruttivamente al regista le possibilità del mezzo nelle
sue caratteristiche espressive, ma anche avvisarlo dei limiti tecnici dell’effetto, il tutto nella
preproduzione e successivamente durante le riprese sul set.
[Section 03]: Produzione, Postproduzione e Fruizione
Nella fase di setting i
reparti che devono prestare particolare attenzione alla costruzione del quadro
sono la fotografia e la scenografia che come si è detto devono avere cura di
concepire una rappresentazione luminosa, contrastata, geometricamente
interessante e così via; in un certo senso si può dire che la linea giusta si
riferisce molto a quella che è la concezione della scena teatrale, in fondo
questa è una sorta di quadro dotato di profondità. Per quanto riguarda la regia,
si ribadisce anche qui la funzionalità dei movimenti di macchina studiati a
favore del risalto della profondità; banalmente la ripresa di un gruppo di
persone con un movimento ad entrare nel gruppo offrirà un risultato più
interessante rispetto alla stessa ripresa ma con un movimento di panoramica sul
gruppo di persone da destra a sinistra. Stesso discorso vale per la scelta dei
parametri di convergenza e distanza interassiale; la regia può instaurare un
diverso tipo di rapporto con lo spettatore tramite la manipolazione di questi
valori: per quanto riguarda la convergenza, questo punto di interesse nella
realtà lo decide il soggetto che guarda, mentre nel film lo decide per
l’appunto il regista, quindi se lo spettatore cerca di cambiare questo punto di
interesse durante la visione del film non riesce, dovrebbe invece lasciarsi
giudare dalla narrazione e non sforzarsi di mettere a fuoco quella che essendo
una ricostruzione prospettica proiettata su un singolo piano non ha reale
profondità nè fuoco prospettico.
“Some believe 3D is
best served by deep focus. My view is that selective focus with short
depth-of-field is a powerful tool in 3D, just as it is in 2D. We still want to
direct the audience’s eye, and the focus plays a role in that, as do lighting,
camera movement and staging.”
(Simon
Gray, 2011, p. 38) a proposito di “Sanctum”
Le parole del direttore della fotografia di
“Sanctum”, thriller drammatico in 3D prodotto da James Cameron, sono
significative per comprendere come può il parametro della convergenza essere
sfruttato per immergere e condurre lo spettatore nella vicenda. In “Tron
Legacy”, altro kolossal targato Disney e firmato Joseph Kosinski, sempre
riferendosi alla convergenza degli obiettivi, che lo ri ricorda, determina se
gli elementi della scena sembrano uscire o meno dal piano dello schermo, la
linea d’azione prevedeva di non legare quesa variabile con il fuoco.
“We treated convergence as a
fixed point in 3D space that moves independently from focus, which makes the
screen appear like a box you’re looking into, and keeps things from leaping out
unnaturally. Additionally, we went against the ‘rule’ of deep-focus
depth-of-field for 3D and let our backgrounds go really soft, which helps guide
the eye along with the depth cues.”
(Claudio Miranda,
2011, p. 56) a proposito di
“Tron Legacy”
Un’altra
testimonianza giunge dal set della produzione di “Coraline”, diretto da Henry
Selick, questa volta riguardo le scelte di gesione della distanza interassiale
fra gli obiettivi. Questo lungometraggio di animazione è stato realizzato con
la tecnica dello stop motion, che si basa cioè sull’animazione frame-by-frame
di pupazzi in scala. Per il fatto che I pupazzi dopo essere stati posizionati
per la ripresa, rimangono fermi, sarebbe bastata una sola camera per registrare
entrambe le visuali stereoscopiche. I tecnici approntarono un rig per una
camera sola dotato di slider per rendere affidabile e funzionale l’apparato. Il
regista assieme con il direttore della fotografia, John Ashlee ed al
supervisore 3D Brian Gardner, non si sorprese tanto nel constatare che più ci
si avvicina al soggetto da riprendere, minore risulta la distanza fra le
ottiche, quanto invece nel verificare che un eccessivo valore dell’IO, con
conseguente proiezione fuori dallo scermo dei piani, causa fastidio e disagio
non indifferenti nello spettatore distraendolo inoltre dalla narrazione. La
distanza interassiale durante lo shooting veniva regolata tramite motion
control, e dunque era possibile variarla senza inconvenienti per entrambe le
visuali, mantenendo anche inoltre un buon margine d’azione per riallinearle in
post.
“The
combination became a powerful tool for creative work as well as solving
technical issues. The most common use was on camera trucks that went from wide
views to extreme close-ups. Henry wanted 3D depth to differentiate the Real
World from the Other World specifically in sync with what Coraline is feeling.
To do that, we kept the Real World at a reduced stereo depth, suggesting
Coraline’s flat outlook, and used full 3D in the Other World.”
(Pete
Kozachik, 2009, p. 28) a proposito di “Coraline”
Qualunque sia la linea del
film, convergenza e IO non possono comunque essere manipolate in maniera
indiscriminata: se l’effetto 3D è legato alla capacità cerebrale di adattarsi,
troppi variazioni di questi paramentri, stacchi nel montaggio e movimenti
veloci della camera, andranno inevitabilmente a creare problemi nella lettura
dei quadri da parte del pubblico. Altre regole da tenere presenti durante le
riprese di un film 3D, riguardano: il controllo dell’attrezzatura, che essendo
“doppia”, presenta potenzialmente il doppio dei rischi ed aumenta la
possibilità di errori umani; il reparto di data managing deve prestare massima
attenzione alla fase di backup ed archivio del girato, in quanto una svista
nell’ordinare i files può causare seri problemi in tabella di marcia, per non
parlare della perdita dei frames di una delle due camere che può voler dire
rigirare l’inquadratura; importantissima è la visione di controllo del girato: guardarlo
sempre in 3D e possibilmente su uno schermo largo. Sul set neozelandese di
“Avatar”, all’inizio delle riprese lo saff approntò una postazione per il
controllo dei giornalieri dotata di due proiettori digitali 3D, in modo tale da
permettere a Cameron e Fiore (il DOP) di ricontrollare il footage appena
registrato direttamente in location e rifinire dove necessario l’effetto 3D
“shot-by-shot”.
“In
the beginning, we were checking on nearly every shot to make sure the lighting
was solid and the convergence and interocular were correct. It was a very
laborious way to start working, but it was necessary. The cameras themselves
were a bit finicky in the beginning, and sometimes getting them to match up was
a challenge. If one was even slightly off in terms of focus, the whole effect
was ruined.”
(Mauro Fiore, 2009, p. 43)
Per quanto riguarda la fase di postproduzione, è
sempre contemplato un ricontrollo digitale ed eventuale riallineamento della
coppia di immagini per ogni fotogramma; la maggior parte delle correzioni sono
semplici aggiustamenti di profondità, in alcuni casi è necessario operare
traslazioni, rotazioni e zoom del frame per matcharlo con il complementare, e nei
casi in cui uno dei quadri è danneggiato, è possibile salvare il frame operando
una dimensionalizzazione dell’unico quadro buono. Laddove è previsto compositing
3D, questo rappresenta essenzialmente un compositing 2D asimmetrico effettuato
sia sul girato “destro” che su quello “sinistro”, e richiede durante la
lavorazione di essere visualizzato in real-time 3D su schermo grande: il
processo è concettualmente semplice ma praticamente più complesso e prevede il
settaggio degli effetti in una delle visuali, la replica e adattamento
nell’altra visuale e la finitura della profondità del frame definitivo, sempre
passando per un controllo in 3D. L’eventuale integrazione di
CGI nella scena, comporta la modellazione di un set virtuale, e la renderizzare
dei due punti di vista differenti. In realtà la CGI è la forma più semplice
attraverso cui ottenere il 3D, proprio per la possibilità di gestire in toto le
impostazioni del mondo virtuale creato, nonchè quelle del rig 3D virtuale con
il quale si inquadra la scena; il rig più semplice utilizza due camere con
settaggi di convergenza e distanza interassiale collegati; il rig più complesso
implementa impostazioni supplementari per il movimento di parallasse dei pixel
fra i vari piani della scena. Se l’idea è quella di arricchire la ripresa con
effetti speciali di sorta, il consiglio è di mantenere la convergenza fra le
ottiche tendente a zero, in modo da renderle parallele: in questo modo si
evitano problemi legati al “keystone artefact”, una deformazione che si nota
soprattutto in presenza di geometrie evidenti che vengono distorte. (Benjamin B., 2011, p. 62) Giunge infine la fase di
render finale dell’intero film che richiederà ovviamente il doppio del tempo a
parità di render engine rispetto ad una scena 2D.
Dunque la postproduzione si conclude con l’export
del film in 3D stereoscopico; quest’ultimo passaggio avviene in funzione del
metodo di fruizione previsto nel caso specifico. La
visione di contenuti 3D può avvenire tramite diversi sistemi di
proiezione-ricezione: i sistemi cosiddetti passivi sfruttano l’espediente
dell’anaglifo o la polarizzazione delle immagini, mentre quelli detti attivi
lavorano con dispositivi sincronizzati con l’apparato di proiezione per
ricevere correttamente le immagini: il sistema anaglifico utilizza tipicamente
un paio di filtri colorati in maniera complementare, cioè con colori che si
trovano agli antipodi dello spettro circolare cromatico, come ad esempio il
rosso e il ciano, che se combinati danno risultante grigia oppure nera a
seconda dell’intensità; lo spettro di luce che passerà attraverso un filtro,
non riuscirà invece a superare l’altro, e l’azione di filtraggio sarà maggiore
con l’intensità della colorazione, che di conseguenza restituirà ad un’immagine
molto scura essendo minore il passaggio della luce. La visuale destra è
proiettata attraverso un filtro, quella sinistra attraverso il suo
complementare, e l’iimagine combinata acquisisce profondità mediante l’azione
degli occhialini colorati; un’immagine non bilanciata nei canali cromatici
causerà un effetto di “ghosting”, cioè quando un occhio vede un traccia di quello
che dovrebbe vedere solo l’altro. L’effetto dell’anaglifo trova migliore
impiego nelle immagini in bianco e nero piuttosto che in quelle a colori
proprio per il fatto di agire sui canali cromatici, in ogni caso nella sala
cinematografica non è più utilizzato come sistema per proiettare film 3D. Un’altra tecnica che rientra nella categoria dei
sistemi di proiezione passivi, è la polarizzazione lineare delle immagini,
impiegata su larga scala proprio per l’efficacia nell’isolare certe vibrazioni
luminose senza ostacolarne altre. In questo caso la porzione di luce che passa
attraverso un polarizzatore orientato verticalmente, non attraverserà quello
disposto orizzontalmente; finchè le immagini destinate all’occhio destro e
sinistro rimangono proiettate rspettivamente con la stessa polarizzazione delle
lenti degli occhiali, l’effetto 3D viene assicurato. Nelle proiezioni
cinematografiche entrambe le immagini polarizzate si trovano a coesistere sullo
schermo e giungono correttamente agli occhi filtrate dagli occhiali senza
bisogno che questi vengano sincronizzati con il proiettore. Un sistema
sincronizzato alla proiezione appartiene invece alla categoria attiva, ed è
composto da occhiali le cui lenti sono display a cristalli liquidi in grado di
bloccare la visuale con una frequenza elevata impercettibile: le immagini
vengono proiettate sullo schermo altrenando quelle destinate per l’occhio
destro e quelle per il sisnistro, e gli occhiali sono sincronizzati con iI
proiettore in modo da permettere la visuale dell’occhio giusto rispetto alla
proiezione. Questa modalità è più costosa e elaborata da settare, ma garantisce
una visione più nitida per il fatto che l’occhio riceve un’immagine piena per
volta e non una combinazione. Le tecnologie di ultima generazione stanno ora puntando
sui pannelli autostereoscopici che già esistono ma con un difetto ancora
determinante, ossia un angolo di visuale troppo ristretto. L’effetto 3D si
manifesta solo posizinandosi di fronte allo schermo in un’ampiezza che non deve
superare I 30°. I produttori di tecnologie consumer stanno implementando questo
apparato, che malgrado il suddetto limite, dimostra ottime potenzialità per la
futura friuzione del 3D. (Ira Tiffen, 2011, p. 56)
In conclusione dunque si evince come gli sforzi
del settore nei vari ambiti di una produzione e tecnicamente parlando siano
ingenti e come la produzione stessa si adatti in ogni caso per ottenere un
risultato particolare; attualmente il workflow del cinema stereoscopico è in
fase di definizione e standardizzazione: molto si è sperimentato e continuerà a
migliorare; sembra un meccanismo ormai ben oliato per incastrarsi nuovamente.
Chapter 04:
Gli autori e il 3D
Ci si chiede da dove sia ricomparso
il 3D in questi anni, chi ha deciso di puntare per l’ennesima volta su questa
tecnica e perchè? La tridimensionalità è il mezzo per con Il quale si cerca di
avvicinarsi maggiormente alla riproduzione della realtà; le immagini dei film
oggi hanno ormai raggiunto un livello di perfezione e definizione davvero
stupefacenti, comprese quelle generate artificialmente, ma sono e restano
immagini piatte. Il passo successivo è conferire spessore a queste immagini,
per creare senso di immersione e susictare sensazioni nuove nello spettatore.
Cosa aggiunge dunque al film il 3D?
“Because
3D is our natural way of seeing, it brings a feeling of realism to the
audience. With 3D, we no longer have to rebuild the volume of objects in the
scene we are looking at, because we get them directly from our visual system.
By reducing the effort involved in the suspension of disbelief, we
significantly increase the immersion experience.”
(Bernard Mendiburu, 2009, p. 97)
Il cinema ha bisogno di
garantire al pubblico tutto questo, soprattutto in un momento in cui il settore
non gode di esuberi e la trasformazione dei canali di fruizione contribuisce a destabilizzare
l’intero sistema.
[Section 01]: James Cameron e il film commerciale
E’ stato definito
visionario e pioniere, per James Cameron aggettivazioni come queste non sono
dette a caso: è cresciuto dirigendo progetti concepiti in grande, cavalcando la
spettacolarità piuttosto che puntando sui contenuti, e bisogna ammettere che in
questo ambito ha ben pochi rivavi in grado di eguagliare I suoi numeri. Può
essere definito un autore commerciale proprio per il fatto di costruire I suoi
film partendo da quella intuizione che rappresenta una sfida con il pubblico,
affrontata sempre con la determinazione di chi crede nella propria visione ed è
in grado di dimostrare agli altri di cosa si tratta. James Cameron ha visto nel
3D una possibilità tanto commerciale quanto artistico-espressiva già nel 2003
dove sfrutta questa tecnica per un film-documentario sull’esplorazione
sottomarina del relitto del Titanic, “Ghosts of The Abyss”; ancora nel 2005
dirige “Aliens of The Deep” altro documentario sottomarino attraverso il quale
vengono migliorate le tecniche sperimentate precedentemente; attraverso
l’esperienza maturata in queste produzioni egli si convince che la stereoscopia
possa rappresentare ad oggi una vera svolta per il cinema: tale sfida va a
concretizzarsi con “Avatar”. La produzione di questo kolossal è stata gestita
da Cameron a tutti gli stadi, avendo ben cura di costruire il suo film per il
3D; non è stata un’aggiunta quanto più una simbiosi, partendo dal tema, di
semplice comprensione a favore della componente visiva, fino ad arrivare alla
sceneggiatura che è modellata per servire il 3D e garantire la migliore
espressione possibile per questo effetto. Avatar si rivela un prodotto molto
ben costruito, che si poneva obiettivi stilistici, tecnici, commerciali che è
riuscito a raggiungere in pieno, un film epocale che malgrado le immancabili
opinioni contrastanti esce dalla sfida premessa come un netto vincitore.
Purtroppo rappresenta allo stesso tempo un caso unico e nemmeno lontanamente
eguagliato in particolare per quanto riguarda la filosofia di produzione; non è
possibile fare a meno di citarlo poichè parlare di Avatar richiama quasi
spontaneamente il 3D e viceversa, ma bisogna tenere conto relativamente dei
suoi numeri in quanto è anche il fattore apripista del 3D il diretto
responsabile di questo picco assoluto, che è già in calo con I film suoi
successori, che han cavalcato male l’onda mossa da Cameron. Il regista stesso è
uno dei più convinti sostenitori del 3D attualmente, ma condivide le opinioni
di coloro che vedono sbagliata la strada intrapresa da moltissime delle
produzioni attuali; la dimostrazione delle potenzialità del tridimensionale con
Avatar è a disposizione di tutti, e anche togliendole la spinta del caso
specifico, permane un risultato che non lascia indifferenti e sul quale
bisognerebbe riflettere con più attenzione. “Cameron had put up the bar very
high,
but ever since, nobody tried to jump over it.
They all walked safely
underneath.” (Mauro
Fiore, 2010, p. 38)
[Section 02]: Wim Wenders e il film d’autore
Il
filone del film d’autore, lontano dal block buster commerciale presenta per
ovvi motivi una difficile penetrazione da parte del 3D nelle produzioni. Che
sorta di film funziona davvero con questa nuova tecnologia? Come si riesce a
mantenere la promessa di adozione di un linguaggio nuovo? Applicare il 3D in un
film d’autore può migliorare le sue possibilità commericiali? Queste le domande
che hanno avvicinato Wim Wenders al 3D. Wenders è un regista ed autore molto
attento, ed è forse proprio per questa sua curiosità che nell’ultimo suo film
documentario dedicato a Pina Bausch sfrutta degnamente la tecnica 3D. Il
percorso che portò a compimento questo progetto è stato lungo e più di una
volta si è arrestato a causa della difficoltà nel concepire come riportare
sullo shcermo, come riuscire a cogliere l’essenza e rappresentare il lavoro di
questa straordinaria artista danzatrice; Wenders ammette che in più di
un’occasione si è trovato in un vicolo cieco: “I felt I just did not have the tools
to do justice to her work”. Pina e Wim cercarono a
lungo assieme un modo per catturare le coreografie e rievocarle in maniera
unica senza ricadere in quella che è la replica della scena live. La situazione
si sbloccò quando il regista tedesco incontrò la tecnologia del 3D e con essa
la spazialità nello schermo: ”The dancer’s realm was space,
with every
gesture, every step, every movement
they were exploring it, delving into it.
And
here was a tool that gave access to it!
My craft had just been given an extra
dimension!“. La scelta dunque non per seguire una tendenza,
al contrario per dare quello spessore unico che avrebbe reso la danza di Pina
l’attrazione del film. Non siamo di fronte ad un progetto costruito per
l’effetto 3D, quanto ad un’opera che trova completezza mediante questa
tecnologia. Wenders è anch’egli dell’idea che attualmente questa “stupefacente”
tecnologia è utilizzata dalle Majors in maniera “oltraggiosa”, non menzina le
lacune qualitative questa volta, ma sostiene che l’efficacia del 3D risieda
nella capacità di riproduzione della realtà piuttosto che della finzione:
“They have
taken this language, this amazing new medium
and kidnapped it,
stolen it,
mutilated it beyond recognition,
so none of their audiences could possibly
conceive of it as a tool
to represent reality. Human reality, our planet,
our
existence,
our concerns. But I am convinced that this is what 3D was invented
for
and what it can do best.”
Malgrado questi esempi di
autori che assieme a pochi altri hanno saputo spingere e concretizzare
un’intuizione, che hanno avuto la giusta curiosità nel provare una nuova
tecnologia, e che hanno capito la direzione migliore per procedere nel
percorso, per ora, il 3D non viene sfruttato nella maniera migliore, non da
tutti, ma dalla maggior parte; è come se appena nato il sonoro, i film venissero
presentati con un rumore di fondo ambientale, ma i dialoghi fossero ancora
visualizzati sui cartelli. La volontà pare però essere presente e I canali di
fruizione sono ormai aperti e pronti a veicolare contenuti 3D, dunque ha sesno
aspettarsi un ritorno in positivo durante questa fase di trasformazione,
assestamento e standardizzazione.
Chapter 05:
Il Pubblico e il 3D
Analizzando l’evoluzione del 3D dal
punto di vista tecnico e storico, raccogliendo le testimonianze degli autori
che da ormai un secolo stanno sperimentando e lavorando con questa tecnologia,
le loro opinioni, il loro approccio nelle produzioni, per giungere infine a
esaminare l’andamento di livello globale del box office, che fornisce un chiaro
rifermiento di quella che è la strategia di chi produce e la soddisfazione o
meno di chi fruisce, si è arrivati, come mostrato, a delineare una direzione
per questo fenomeno che con l’attuale ripresa pare davvero riusicre a
ritagliarsi un posto e soprattutto un ruolo nel panorama dell’intrattenimento e
dei media contemporanei.
L’importanza di raccogliere un’ulteriore
testimonianza in maniera diretta e non basarsi esclusivamente sulle conclusioni
tratte da terzi, risiede nel fatto in primo luogo di confermare o rimettere in
discussione tali conclusioni, ed in secondo luogo di operare una raccolta di
dati mirata, seguendo un percorso originale e coerente con la ricerca che si
sta portando avanti: il risultato potrebbe presentare sfumature diverse a
seconda del mezzo e del modo impiegato per perseguirlo. Si è scelto come mezzo
un modulo sottoforma di questionario, composto da una ventina di domande
prevalentemente a risposta chiusa e che ruotano attorno a poche questioni
fondamentali: una prima parte introduttiva per delineare le caratteristiche
dello spettatore medio; nelle sezioni successive, ovvero il corpo centrale del
questionario, viene valutato invece l’approccio del pubblico verso l’offerta
cinematografica 3D, il livello di conoscenza del mezzo, le soddisfazioni e i
malcontenti finora, ed infine le aspettative e i consigli per il futuro. Il
documento è stato redatto in forma digitale, sfruttando la piattaforma di
Google Docs; la scelta di qesta forma di e-document è legata sostanzialmente
alla caratteristica dell’ambiente in cui si è deciso di divulgare e
somministrare il questionario, oltre che legata ad un discorso di immediatezza
nella propagazione del suddetto e successiva ricezione ed analisi dei
risutlati: si è deciso di operare una selezione dei campioni a monte
destinandolo agli utenti della rete, quindi con un grado tecnologizzazione già
più specifico, passando per il social network per eccellenza, FaceBook;
all’interno di questo circuito sono state individuate alcune aree di interesse
inerenti al tema del questionario, come per esempio pagine e gruppi riguardanti
film 3D o frequentati da persione con l’interesse per il cinema, ed in questie
nicchie è stato proposto il modulo, presentandolo come un progetto di raccolta
di dati al fine di stendere un profilo del trend attuale del cinema
stereoscopico; si è previsto di saggiare approssimativamente un centinaio di
campioni prima di passare all’analisi dei risultati definitiva. La scelta di
operare una ricerca anonima garantisce da un lato maggiore sincerità e serenità
nel rispondere alle domande, per quanto il tema non rappresenti in alcun modo
motivo di riserve, dall’altro mina la serietà delle risposte in alcuni casi, ma
in generale si parte dal presupposto che quei 10 minuti necessari alla
compilazione del modulo non vengano investiti da chi compila per fornire
risposte a caso. Di seguito gli esiti:
Dalle prime domande (01 e 02) viene
inquadrato il profilo dello spettatore medio, riportando un abbondante 70% di
pubblico appartenente alla fascia centrale dei 20-30 anni, mentre il restante
30% equamente spartito tra la fascia più giovane del 15-20 anni e quella più
anziana tra i 30-60 anni. Di questo totale, il 60% è studente mentre il 30%
lavoratore; l’ultimo 10% è composto in sostanza da disoccupati.
Scopo delle successive domande (03 e 04)
è risalire alla frequenza con cui questo pubblico si reca al cinema, e quello
che emerge è che un impressionante 90% entra in sala da una a due volte al mese
senza considerarla un’abitunie quanto un raro diversivo; un terzo di questo 90%
sostiene di andare al cinema solo quando esce un film che ritiene interessante.
Altra risposta allarmante si ricava
chiedendo se quando si va al cinema si è da soli oppure in compagnia e se la
cosa rappresenti un fattore determinante: il 50% rinuncia alla sala nel momento
in cui non si trova in compagnia. Questo è indice del rapporto che viene a
mancare tra il film e il singolo spettatore, e ciò si rispecchia nel gradimento
effettivo che quest’ultimo ha in media nei confronti del prodotto
cinematografico, ma anche del modo di fruirlo andando al cinema; il pubblico
raggiunge comunque i contenuti, ma oggi i canali da cui attingere sono diversi
e in contunuo mutamento, e questo è un fattore che non si può tralasciare.
Il terzetto di domande che segue (05, 06
e 07) riguarda la conoscenza delle terminologie tecniche specifiche del cinema
3D, ovvero l’aggettivo “stereoscopico” riferito ad un film, il principio di
funzionamento degli occhialini usati per vedere i film e la “riconversione”; in
tutti e tre i casi si riscontra una 30-40% di pubblico che non ha idea di cosa
si stia parlando ma gradirebbe saperlo, mentre il restante 60-65% si spartisce
con simile peso tra chi è sicuro di conoscere il significato e chi crede di
conoscerlo ma non ha certezza. Una proporzione di questo tipo è comunque
positiva per la natura specifica di questi argomenti tecnici e indica che lo
spettatore è più che attento rispetto alle nuove tecnologie. Giunge dunque la
fatidica domanda 08: “Hai mai visto un film in 3D?” questo punto rappresenta un
bivio in quanto una risposta affermativa conduce ad una serie di domande sulle
esperienze fatte, il gradimento ecc, mentre una risposta negativa prevede una
conclusione più celere del percorso. Le proporzioni sono coerenti con le
aspettative, anche se, visto il targhet in esame, un 15% di pubblico che non ha
mai visto uno spettacolo 3D
tutt’oggi, è comunque una percentuale elevata.
Coloro che hanno risposto negativamente,
imputano il motivo del disinteresse in primis nel costo elevato del biglietto,
secondariamente a problemi legati alla vista ed in ultimo al passaparola
negativo, aggiungendo inoltre che una maggiore informazione, e non
pubblicizzazione, potrebbe avvicinarli a questa tecnologia.
Per il resto del pubblico che invece ha
assistito almeno una volta ad uno spettacolo tridimensionale, si evince
nettamente che il motivo principale dell’interesse è scaturito la prima volta
per la curiosità verso quella che era una novità, 65% piuttosto che per il film
in sé, 17% (09); si risocntra poi una netta scissione tra chi sceglie il film
basandosi solo su come viene presentato e pubblicizzato e chi invece si informa rispetto alla
produzione, agli autori ed in generale a chi ci ha lavorato (11 e 16); inoltre
tra le caratteristiche maggiormente tenute in considerazione nella scelta dello
spettacolo (10) rientrano al primo posto il genere del film, la regia, il tema
ed infine il formato nativo oppure riconvertito, anche se la maggior parte
delle lamentele rigurado la qualità del 3D è da imputarsi a questa tecnica cui
davvero pochi badano.
Il percorso continua (12) verificando il
peso del costo del biglietto nella scelta di andare al cinema. Il pubblico si
divide ancora una volta in parti uguali: in realtà questi risultati opposti
portano a pensare che le voci degli spettatori siano sostanzialmente due, una
di chi vede il cinema come un’opzione di scarsa attrattiva valida solo come
passatempo, l’altra di chi lo considera un vero interesse e dedica tempo per
seguirlo e coltivarlo.
Per quanto riguarda il gradimento in
generale degli spettacoli in 3D (13), anche in questo caso non si riscontra una
direzione univoca: un 25% non è per nulla soddisfatto e soprattutto non intende
seguire oltre questa tendenza; un altro 25% pur non essendo soddisfatto è fiducioso
che le miegliorie che verranno apportate renderanno il 3D gradevole; infine un
buon 35% si ritiene appagato ma riscontra comunque una carenza netta di qualità
che deve essere incrementata. Raggruppando le porzioni di pubblico non
soddisfatto si nota però come queste rappresentino la metà del totale e dunque
una risultante tendenza negativa del settore cinematografico 3D. Interessante
notare come la fiducia nell’effetto 3D (14) risieda per il 65% dei soggetti in
un impiego spettacolare vincolato ai generi d’azione, avventura, horror e
grandi block buster piuttosto che a generi come la commedia, il dramma,
l’indipendente; una percentuale ancora minore, il 46% se deve scegliere il 3D
vuole che sia al servizio dei grandi effetti speciali (15): questi dati
indicano che dall’altra parte, ben il 54% del pubblico sarebbe invece propenso
a scegliere un film 3D d’autore qualora ci fossero più produzioni di questo
tipo in uscita. Dunque forse si sta già andando a cercare una nuova forma di
3D, data l’insoddisfazione generale.
Il questionario continua con una nutrita
lista di lungometraggi 3D usciti negli ultimi anni dei quali viene chiesto al
pubblico un giudizio qualitativo (17): il dato importante però risiede nel
fatto che dei 30 titoli proposti per ben 27, il 75% degli spettatori non ha
visto la versione tridimensionale; unica eccezione riguarda il caso “Avatar” le
cui percentuali riportano solo il 28% che non ha visto il film in 3D, contro un
33% che lo ha decisamente gradito in questo formato, un 12% che non ha trovato
l’effetto sorprendente ed un 5% che avrebbe preferito vederlo in 2D.
Come si è visto anche in realzione
all’analisi autoriale, “Avatar” rappresenta un caso a parte di cui si tiene
conto ma in maniera oculata.
La questione qualitativa è un punto
fondamentale del dibattito sul 3D, per questo è stato chiesto ai soggetti
tramite una domanda a risposta libera (18) se nel momento dell’insoddisfazione
legata all’effetto questi sono in grado di risalire al motivo di tale
malcontento: molti segnalano la mancanza dell’effetto e la delusione delle
aspettative, altri sensazioni fisiche spiacevoli, costi elevati e tattiche di
marketing per imbrogliare il pubblico. Tutti ambiti che sono stati presi in
considerazione e valutati nella ricerca effettuata.
Il modulo procede con una previsione
sulle produzioni future (19), un elenco di titoli in uscita nel prossimo
biennio con una media pari al 20% di spettatori che a priori andrebbero a
vedere il film in 3D, un 30% che andrebbe a vederlo nella versione canonica ed
un 50% che attenderebbe le critiche prima di decidere. Questo è un dato che
dovrebbe lasciare i produttori sull’attenti in quanto c’è davvero poca fiducia
allo stato attuale. Dunque si è chiesto per concludere il questionario, quale
fiducia è riposta nel fenomeno 3D anche in rapporto al futuro: il 4% ha toale
fiducia che il 3D in questa ripresa riuscirà ad instaurarsi come killer
application nel settore. Una percentuale inesistente. il 15 % non ha al
contrario nessuna fiducia in quella che considerano una moda già in declino e
destinata all’ennesimo fallimento. Il 31% ha buone aspettative, reputa questa
una fase di assestamento e vede una prospettiva futura sempre migliore per
questa applicazione. Il 50% percepisce che il trend attuale non potrà che peggiorare
se chi
produce non fa attenzione ad offrire maggiore qualità oltre alla sigla 3D sulla
locandina.
Dunque I dati confermano
quanto appreso nel percorso di ricerca del trend attuale: fase di assestamento;
attenzione alle scelte produttive; attuale malcontento ma sostanziale fiducia
per il futuro.
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