martedì 19 giugno 2012

Stereo 3D aesthetic


Research Project

3D aesthetic
pietro torrisi



Abstract
Questo saggio si propone di esaminare uno dei fenomeni di punta del panorama dell’entertaining visivo mondiale dei giorni nostri, ovvero la rappresentazione stereoscopica delle immagini in movimento. Il percorso di ricerca prevede in primo luogo l’analisi dell’evoluzione del “cinema 3D” dagli albori nella metà degli anni ’90, fino ad oggi, soffermandosi in particolare sugli aspetti tecnici e teorici attuali. In questo frangente è possibile riconoscere un principio di mutamento analogo alle precedenti trasformazioni subite dal mezzo cinema, (come il sonoro alla fine degli anni ’20). Abbiamo a che fare con un’innovazione, quella del 3D, destinata a portare benefici al linguaggio cinematografico ed in maniera duratura, o si tratta solo di una fase di passaggio, scaturita per lo più dalla crisi del settore degli ultimi anni, ma che non riuscirà a radicarsi?
Lo studio dei principali attori di questa innovazione-rivoluzione, porta risultati che permettono di delineare, una direzione prevalente delle tendenze, sia per quanto riguarda l’ambito artistico, che quello economico legati a questo mezzo; si andrà ad operare un’indagine in ambito produttivo, per poi passare al mondo della regia, che vede opinioni contrastanti all’interno del filone sia commerciale, che del cinema d’autore, per giungere infine al riscontro del pubblico, che ora più che mai rappresenta il fulcro del sistema dato il suo potere di condizionare a conti fatti l’intero settore dell’entertainment.
L’approccio metodologico che è stato scelto per affrontare questa ricerca si basa sullo studio di editoriali, pubblicazioni, interviste e l’analisi di fattori statistici; inoltre, verranno raccolti dati tramite la somministrazione al pubblico di un questionario, con lo scopo di meglio definire i meccanismi di fruizione del prodotto e le tendenze dello spettatore medio, nonchè di carpirne il ragionamento che lo porta alla selezione e scelta del film in sala.
Proprio per la natura ancora da definirsi di questo momento di trasformazione e passaggio, non è la certezza che andiamo a ricercare, quanto la formulazione di una previsione, verosimile e basata sui dati raccolti.

Introduzione
Seppur ormai largamente diffusa come aggettivazione, è erroneo definire un’immagine in “3D”. 3D sta per tre dimensioni, che già di per sè è un attributo che non si sposa concettualmente bene con quello che è una rappresentazione piatta, come può essere una stampa, o intangibile, come una proiezione video. 3D è un effetto, una nostra percezione. Nel periodo dell’avvento della computer grafica il ternime 3D riferito al cinema stava ad indicare quei film realizzati attraverso immagini generate al computer. Infatti è corretto riferirsi con il termine CGI, acronimo di Computer-Generated Imagery, a quei prodotti audiovisivi nati da sfotware di modellazione tridimensionale (o perchè no anche bidimensionale) che replicano un mondo verosimilmente palpabile e prospettico, ma che a conti fatti, sintetizzano una rappresentazione resa mediante un’immagine “2D”. L’aggettivo corretto da affiancare per rendere il concetto è “stereoscopico”. Per semplicità ci si riferisce in maniera ormai quasi convenzionale al film stereoscopico, chiamandolo semplicemnte film 3D.

Per capire innanzitutto cosa significhi avere una visione stereoscopica, cominciamo col dire che si tratta di un processo che consta nel percepire due immagini apparentemente simili ma sostanzialmente differenti, nello stesso istante e nel fonderle attraverso una elaborazione cerebrale, ottenendo così una visione connotata da una forte e realistica sensazione di profondità. E’ bene sottolineare che non si tratta di un’illusione ottica; il nostro cervello non è portato all’inganno in maniera passiva, bensì è condotto in maniera attiva a compiere uno sforzo percettivo per ricostruire ad ogni istante questa riproduzione verosimile della visuale “binoculare”: le due immagini percepite infatti si riferiscono a ciò che è visto dall’occhio destro e da quello sinistro nello stesso istante.

“With 3D we persuade our eyes to converge on visible objects as if they had physical mass and position in space, when they really only exist as light emanating from the two-dimensional surface of a television or theater screen. We have learned to recognize that as our eyes angle more toward each other (converge) when looking at an object, we are getting closer to it. This principle is behind the sense of depth 3D imparts. When we look at something far away, our eyes are aligned in parallel; when something is close enough, we can go practically cross-eyed. Our brain has the ability to sense that an object viewed at a certain convergence angle is a certain distance away. 3D is about creating this sensation of depth in ways that add enjoyment to the motion-imaging experience.”
(Ira Tiffen, 2011, p. 55)

Uno dei punti cruciali su cui resta acceso il dibattito sull’affermazione dei prodotti multimediali stereoscopici oggi, riguarda appunto il sistema di fruizione degli stessi e le piattaforme per divulgarli. Affinché l’effetto della profondità risulti efficace, è necessario che gli occhi dello spettatore ricevano l’immagine corrispondente al loro punto di vista rispetto alla scena. Le tecnologie impiegate, sono diverse, basate su principi diversi ma ancora in via di perfezionamento e standardizzazione; quel che è certo è che una definizione rivoluzionaria di questo sistema che esiste da ormai quasi un secolo, porterebbe ad una diffusione singnificativa e su vasta scala del 3D, e solo allora si potrà parlare davvero di killer application del settore entertainment (ma non solo), nonchè inizio di una nuova era del cinema contemporaneo.


Chapter 01: Nascita ed Evoluzione della stereoscopia


Se pensare alla tridimensionalità riporta alla mente qualcosa di completamente moderno ed innovativo, forse è meglio chiarire che la stereoscopia non è esattamente una tecnica nata e sviluppatasi nel nostro secolo, anzi, le sue radici risalgono addirittura all’inizio del diciannovesimo secolo.

[Section 01]: Albori (1830-1950)

Donata Compagnoni (2007, p. 23) parla del Britannico Chrles Wheatstone come del primo a compiere ad inizio ‘800, studi sulla sereoscopia e sperimentare la simulazione della visione umana mediante l’utilizzo di stereogrammi affiancati (coppie di disegni statici). Nel 1838, lo studioso conceretizza tali ricerche scrivendo un trattato sulla visione binoculare e presenta il primo stereoscopio alla Royal Society di Londra: si trattava di un oggetto simile ad un binocolo in grado di ricreare la sensazione di profondità mediante l’impiego degli stereogrammi e successivamente di fotografie; sebbene innovativa come invenzione, non ebbe successo né seguito immediati. Passo successivo a Manchester nel 1852, ad opera di J.B. Dancer, fu la creazione di una fotocamera stereoscopica, dotata cioè di due obiettivi e in grado di immortalare entrambe le visuali in un’unica immagine fruibile per esempio con lo stereoscopio. Anche in questo caso, contenuto l’impatto sul pubblico, eccezion fatta per quegli ambienti ricchi e di alto livello, soliti ad accogliere con curiosità quasi modaiola le novità dell’entertainment. Quanto visto finora erano comunque solo rappresentazioni statiche dotate di profondità.

Luis-Jules Dubosq, sempre in quegli anni, riadattò il concetto dello stereoscopio per arrivare a restituire due immagini rispettivamente distinte agli occhi, questa volta in movimento, brevettando così il fantastereoscopio. Il concetto della stereoscopia era individuato appieno, purtroppo il mezzo allo stato dell’epoca era appena in grado di supportarlo e divulgarlo in maniera appropriata. Le invenzioni stereoscopiche si evolvevano pari passo alle innovazini in campo fotofgrafico; come si diffondevano le fotgrafie, veniva applicato il principio della stereoscopia sulle immagini statiche realizzate su pellicola; rappresentanti di questa tendenza furono, negli anni ’30, dispositivi come il True-View e successivamente il View-Master, sostanzialmente dei giocattoli atti ad intrattenere e stupire mostrando dei set di immagini stereoscopiche.

Con la nascita del cinema negli anni ’20, crebbe, seppur in maniera decisamente contenuta, anche il ramo del cinema stereoscopico che a fasi alterne sperimentò nel corso di tutto il ventesimo secolo nuove tecnologie e differenti sistemi di resa dell’effetto. La prima proiezione pubblica di un film in 3D avvenne nel 1922 a Los Angeles; Il film in questione “The Power Of Love” basa la tecnologia 3D sul sistema dell’Anaglifo, introdotto peraltro dal produttore stesso, Harry Fairall. La tecnologia dell’Anaglifo in sintesi agisce tramite occhiali dalle lenti colorate che discriminano le immagini destinate ai due occhi filtrando ciascuno dei due canali cromatici proiettati sullo schermo; la doppia proiezione avveniva posizionando lenti davanti ai proiettori in modo da colorare ogni canale, oppure proiettando due pellicole debitamente virate a monte. Questo primo affaccio del cinema stereoscopico sul pubblico degli anni ’20 non destò troppo scalpore, tanto che il film in questione venne riproposto solo in una proiezione destinata ad espositori e stampa cui seguì il ritiro definitivo dal mercato. (Hayes, 1998, p. 45) Sempre in quegli anni tentò la fortuna un’altra pellicola in 3D, “The Man From M.A.R.S.” che in troduce però questa volta una tecnologia nuova per la rappresentazione stereoscopica: il Teleview. Creato dagli statunitensi Lawrence Hammond e William Cassidy, il Teleview è da considerarsi come il primo sistema di proiezione a fotogrammi alternati nella storia del cinema; esso prevedeva l’utilizzo di visori sincronizzati e collegati all’apparato tramite i braccioli delle poltrone in sala, dotati di otturatori che venivano aperti e chiusi alternativamente, creando così una reale immagine stereoscopica senza perdita di qualità e con il vantaggio di stancare meno la vista dello spettatore. Sicuramente interessante ma non ancora in grado di affermarsi su un pubblico forse troppo scettico ed esignete. Inoltre la fine del decennio non avrebbe portato giorni di gloria al settore dell’intrattenimento che a causa del crollo della borsa nel ’29 vide arrestarsi gli investimenti e calare l’interesse delle masse; qualche timido passo avanti da parte dei fratelli Lumiére, nella Francia del ’33, venne compiuto in direzione della stereoscopia con la riedizione deigli ormai famigerati cortometraggi che una trentina di anni prima avevano stupito il pubblico di tutto il mondo: “L’Arrivée Du Train” venne così riproposto in una versione 3D Anaglifico.

Bisognerà però aspettare la ripresa dell’economia e la fine degli anni ’30 per vedere nuovamente riproposto lo spettacolo 3D e con a sostegno una tecnologia completamente rinnovata; ci si riferisce al cortometraggio commerciale “In Tune With Tomorrow” di John Norling, presentato sfruttando il sistema della luce polarizzata. Il concetto del filtro Polaroid, sviluppato qualche anno prima dallo studioso inglese Edwin Land ma applicato al cinema solo nel 1939, consta in fase di proiezione nell’impiego di un doppio proiettore le cui lenti sono dotate di filtri polarizzatori, orientati ortogonalmente uno rispetto all'altro, così da proiettare due immagini polarizzate diversamente l'una dall'altra. Lo spettatore viene dotato di occhiali montanti anch'essi due lenti polarizzate, in modo tale che ogni occhio visualizzi solamente l'immagine ad esso destinata. Altro componente del sistema, il Silver Screen, particolare schermo sul quale vengono indirizzati i fasci di ciascun proiettore, predisposto per restituire la luce con la corretta polarizzazione e garantire una visione ottimale.

E’ interessante notare come già prima dell’età dell’oro del cinema 3D (che si veririfcherà nei successivi anni 50) le tecnologie a sostegno degli unici film 3D che emergono dal mare primordiale della cinematografia, sono quelle che ancora oggi rappresentano le basi per la diversa fruizione di contenuti stereoscopici, ovvero: Anaglifo, Teleview, Polarizzatore. (Hayes, 1998) Le problematiche tecniche legate ad esse, quali fastidi cusati dal filtro cromatico e dall’alterazione dei colori, elevati costi dei sistemi Teleview e Polaroid che richiedevano di attrezzare la sala cinematografica apposta ed in maniera permanente, frenarono comunque il boom del fenomeno; il pubblico dal suo lato accoglie con stupore l’offerta dello spettacolo 3D ma non è ancora in grado di determinarne l’affermazione, anche in riferimento ad un’epoca in cui gli avvenimenti storici mettono in seria difficoltà quel settore dedicato a beni e servizi di seconda necessità di cui fa parte lo spettacolo. Durante il corso degli anni ’40 infatti, ogni ulteriore sviluppo nel campo della stereoscopia viene arrestato dalla Seconda Guerra Mondiale.

[Section 02]: Età dell’oro (1950-1960, 1986-presente)

Proprio la consapevolezza delle potenzialità del 3D stereoscopico, unita alla possibilità di poterlo fruire mediante innovazioni ogni volta più funzionali ed efficaci verso lo spettatore, ha permesso a questa tecnica di guadagnare periodicamente nuovi affacci sul panorama dello spettacolo, nel corso del ventesimo secolo. L’età dell’oro del cinema 3D si apre nel 1952 con l’uscita del primo film stereoscopico e a colori “Buana Devil”, girato in doppia pellicoca e proiettato mediante il sistema della luce Polarizzata, peraltro quello utilizzato nella stragrande maggioranza delle proiezioni di questi anni. Il successo di pubblico è davvero buono, la critica lo stronca ma si tratta di un lungometraggio comunque valido dal punto di vista tecnico; l’ascesa del 3D ha inizio: nel 1953 appaiono “The Man In The Dark” e “The House Of Wax”, rispettivamente prodotti dalla Columbia e dalla Warner Bros, che introducono l’audio stereoscopico e acquisiscono popolarità al punto da identificare alcune grandi star con il mezzo 3D, come nel caso di Vincent Price che reciterà in molti film 3D. Si tratta di una moda prevalentemente Americana. Questi risultati indicano che Gli Hollywood Studios avevano trovato il fulcro su cui far leva per riportare il pubblico in sala, strappandolo peraltro alla televisione che in quel periodo si stava dimostrando un indegno concorrente del cinema: in America gli anni post conflitto portarono una sorta di recessione artistica e culturale nel cinema uniformando in maniera marcata i generi, svuotnado i contenuti, allontanando le forme espressive di stampo sociale di nicchia e d’avanguardia (che non vennero comunque sradicate, ma rimasero in attesa di rifiorire), per dare ai film l’impronta del prodotto d’intrattenimento; la televisione dalla sua parte diede apporto alla trasformazione degli schermi formali e del pubblico abituale in ambito di temi proposti: trasmissioni televisive commerciali, comedy atte ad intrattenere e presentare prodotti di consumo, bassezza nei temi proposti e carenza nei contenuti da imputarsi alla propagazione di massa ed all’ampiezza del targhet di pubblico; nel 1955 inoltre iniziano le trasmissioni a colori e la diffusione sempre maggiore degli schermi televisivi è registrata in una cinquantina di paesi in tutto il mondo. Si comprende come questo fenomeno abbia una portata in grado di deviare il percorso del cinema, ma senza arrestarlo, al contrario direzionandolo verso un mutamento ed un’evoluzione non per forza negativa. (Rondolino, 2006, p. 217)

Non persero tempo altre Majors come la Universal, la 20 Century Fox, la Metro Goldwin Mayer e la Walt Disney a buttarsi nella produzione di film stereoscopici, riscuotendo in generale consensi e successo al botteghino. Se in principio il 3D era destinato film di serie B horror e di fantascienza, vediamo invece allargarsi il ventaglio fino a comprendere generi come Il western, la slapstick comedy, il musical e addirittura il comico e il film d’animazione; dimostrazione questa, del tentativo di imporre il 3D come standard nel panorama cinematografico, il tutto ovvimanete incentivato dal riscontro del pubblico. Le critiche di quegli anni non si dilungano in analisi approfondite e bocciano questa categoria di film, salvo quelle con fine commerciale che invogliano il pubblico in maniera sintetica e diretta:

“This seems to be the 3D flick that most exploits the short-lived medium. An endless array of stuff comes whiffling at your face – a lit cigar, a repulsive spider, scissors, forceps, fists, falling bodies, and a roller coaster.”
(The Village Voice, 1953) a proposito di “The Man In The Dark”

Il primo motivo di incertezza del fenomeno 3D nell’età dell’oro, si verificò nello stesso anno del boom, quando l’inverno del ’53 vide l’introduzione del formato anamorfico, del cinemascope, ovvero il maggiore rivale del cinema 3D in quel periodo. Dal ’54 vengono comunque distribuiti numerosi film stereoscopici che mantengono alto l’interesse anche per la presenza dietro la macchina da presa di autori rinomati: Jack Arnold presenta “Creature from the Black Lgoon”, Howard Hughes gira “Son of Sinbad” e Alfred Hitchcock “Dial M For Murder”.



“Action now can seem, not only to recede into the distance beyond the opening, but to come forward through the opening.”
(New Screen Techniques, 1953) a proposito di “Dial M For Murder”

L’arresto della crescita del 3D avviene però nel 1955, quando i produttori non investono ulteriormente in questa tecnologia, impedendo così da un lato la risoluzione dei problemi tecnici ancora presenti e causa di malcontento da parte degli spettatori e dall’altro favorendo e puntando sulla novità del widescreen.

[Section 03]: Ondate di revival (1960-1984, 2003-presente)

Nel corso della seconda metà del ventesimo secolo le innovazioni significative in campo stereoscopico non sono state molte. Una prima ondata di revival prende corpo nei primi anni ’60 con la creazone dello Space-Vision 3D, che permetteva di sfruttare le lenti polarizzate ma con l’ausilio di un solo rullo in fase di proiezione invece che due distinti. Altra tendenza, quella di far incontrare il formato widescreen con la stereoscopia, cosa che lentamente si verificò ma sempre mantenendo in sordina la branca del cinema 3D rispetto al cinema in auge del tempo. Con il boom degli anni ’80 IMAX impiega poi il 3D combinato con i 70mm; utilizzando il processo sperimentato dal sistema Space-Vision, gli autori di cinema hollywoodiani, vengono colpiti da una mania del 3D paragonabile a quella di una trentina di anni prima. Grazie alla popolarità ottenuta ridistribuendo film come “The House of Wax” e “Dial M For Murder”, nuovi registi ispirati dall'effetto tridimensionale in grado di bucare lo schermo, saltano sul carrozzone del 3D producendo film orientati ad un pubblico più mainstream, di cui si ricordano “Comin’ At Ya!”, “Friday The 13th”, “Amityville 3D”, “Jaws 3D”.

Questa prima ondata si esaurirà nel 1985 per riproporsi solo nel ventunesimo secolo: nel 2003 James Cameron, che dimostrerà di avere un interesse particolare per la stereoscopia anche qualche anno più tardi, produce e dirige “Ghosts Of The Abyss”, primo film per il sistema IMAX 3D ripreso utilizzando il sistema Reality Camera (che non usa pellicola ma riprende in HDTV digitale). Seguono nel 2004 “Polar express”, nel 2005 “Chicken Little”, nel 2008 “U2 3D” (primo concerto divenuto film live action in 3D) e “My Bloody Valentine” nel 2009, per citarne alcuni; allo stato attuale dei nostri anni, le tecnologie base nate all’inizio del secolo scorso si son specializzate e rinnovate, qualcuna si è persa, come l’Anaglifo (utilizzato ormai solo per le riproduzioni in stampa ed in qualche edizione home video), qualcun’altra si è radicata, come le lenti polarizzate largamente diffuse al giorno d’oggi. Il pubblico è interessato a qualunque cosa porti novità ed unicità in un sala sempre più vuota, e ha dimostarto di prestare attenzione ed essere esigente verso le nuove tecnologie; sarà necessario soddifare questa richiesta proponendo contenuti di qualità investendo il giusto e sul giusto. Nel 2009 la riscossa del 3D è agguerrita, risoluta e vede l’uscita di titoli attesissimi, come “Avatar” e qualche mese più tardi “Alice in Wonderland”, che ottennero risultati impensabili già solo nel primo weekend di programmazione in USA; rispettivamente, 77 milioni di dollari su 3.452 schermi per “Avatar”, e 116 milioni di dollari su 3.728 schermi per “Alice In Wonderland”. Due casi eccezionali di sicuro, ma significativi nella misura dell’affluenza di pubblico richiamato, mai vista negli ultimi anni. Merito del 3D? (boxofficemojo.com, [online]) Forte delle innovazioni moderne al servizio di questo effetto e del periodo storico che necessita di un colpo di spugna deciso per dare respiro al settore, a partire dal 2009 il polmone del cinema stereoscopico può rimepirsi finalmente d’aria nuova, concedendo ancora una volta al 3D il tentativo per imporsi come killer application.


Chapter 02: Il 3D come fenomeno nel cinema dell’attualità


Recentemente il fenomeno del 3D nel cinema ha conosciuto una nuova ondata di revival. É un dato di fatto che il concetto della stereoscopia sia consolidato ormai da un pezzo, tuttavia solo di recente la tecnologia per mezzo della quale può esprimersi sta assumendo le giuste caratteristiche per permetterlo. Se è vero che in un primo momento questo boom del fenomeno lasciava spazio a previsioni che riportavano questa come tecnologia determinante nel futuro del settore, è altrettanto vero che nel giro di pochi mesi si son maturate opinioni diametralmente opposte rispetto alle prime. Dunque, forse anche in questo caso, come d’altronde sarebbe buona cosa fare in generale, porre la propria visione ad un estremo della bilancia, non è il modo corretto di affrontare il dibattito: tenendo quindi in considerazione sia chi da un lato sostiene che il 3D è l’unica prospettiva futura possibile per la visione di film e conenuti multimediali, sia chi dall’altro afferma che la forza di questa innovazione si è già esaurita per lasciare spazio all’ennesima ricaduta, posizioniamoci nel mezzo per provare a maturare un’opinione il più possibile oggettiva sulla questione.

[Section 01]: Parallelo con le innovazioni che han trasformato il cinema

Il 3D è un nuovo motore per l’innovazione degli gli studios americani, addirittura, come sostiene il Ceo della DreamWorks Animation, Jeffrey Katzenberg, paragonabile all’invenzione del sonoro negli anni ’30 o al passaggio dal bianco e nero al colore (Timothy M. Gray, 2010, online); in un’ottica di questo tipo ha senso ragionare in parallelo con quanto è già accaduto in passato, cogliendo inoltre l’occasione per introdurre il concetto di “Immigrant Vs Native” come aggettivazione ad un soggetto.
Un soggetto viene definito “Immigrant” rispetto ad un sistema condiviso all’unanimità, quando l’individuo in questione, durante la sua crescita, si trova ad affrontare la trasformazione del sistema stesso; viene definito invece “Native” quando dalla nascita si trova ad interfacciarsi a questo sistema in maniera naturale. Un esempio chiarificatore in ambiemte filmico per la nostra generazione, è sicuramente il passaggio dall’analogico al digitale; Digital Immigrants sono coloro che abituati e cresciuti in ambiente analogico, hanno dovuto affrontare il passaggio al digitale come standard; Digital Natives, invece sono abituati a considerare il digitale una condizione di partenza. In generale l’individuo Immigrant compie lo sforzo dell’adattamento che lo porta a comprendere la dinamica del nuovo equilibrio e le sue regole, ma la visione delle potenzialità inespresse che accompagnano questa evoluzione, son quasi sempre intuite e sfruttate dai Natives, che in quanto tali hanno un rapporto e conseguente approccio diverso rispetto al sistema in questione. In un’ottica di questo tipo, noi apparteniamo alla categoria dei 3D Immigrant, in quanto stiamo subendo l’intromissione nelle nostre vite (possiamo dirlo) di questo mezzo, e lo sforzo che stiamo compiendo rappresenta per l’appunto la nostra ricerca di una definizione, di un ruolo da attribuire al 3D. I giovani che si affacciano sul panorama dell’entertainment in questi anni, cresceranno assieme alla tecnologia del 3D e matureranno inconsapevolmente un rapporto con questa tecnica sensibilmente diverso dal nostro. E’ anche per questo motivo che forse è prematuro affermare di conoscere le sorti del 3D allo stato attuale delle cose; se il panorama oggi alterna vedute a tratti luminose a tratti oscure significa solo che ci troviamo nel cambiamento di stagione; quello che risulta essere un passo in principio incerto non per forza sta a preannunciare una caduta, come ci offre esempio l’esperienza del passato. Il solo fatto che le Majors ed i colossi High-Tech di tutto il mondo stiano investendo, e non poco, nel 3D, dà certezze per quanto riguarda la continuità della ricerca e della specializzazione, quindi la reale possibilità che venga sintetizzato un sistema di produzione-fruizione definitivo per questa tecnologia; dunque se dal punto di vista tecnico si intravede un futuro di qualità, perchè non avere fiducia anche nella qualità dei contenuti? Si tratterà di un processo più lento, ma in questo senso vale la pena di puntare sulla schiera dei 3D Natives che sapranno dare sicuramente un contributo essenziale nella definizione del prodotto stereoscopico, proprio come sta accadendo con i Digital Natives in rapporto al cinema digitale da qualche anno a questa parte. (Luca Oddu, 2011, workshop)
Tornando quindi ad analizzare in parallelo le trasformazioni del cinema, dalla sua nascita ad oggi, esso ha compiuto un percorso di evoluzione fortemente influenzato dalla commistione tra innovazioni tecnologiche e stile, genere narrativo. Questi momenti di grande cambiamento si sono rivelati traumatici per il sistema poichè, in quanto tali, hanno rivoluzionato non solo il prodotto cinematografico in senso stretto, quanto tutto ciò che di tecnico, economico, commerciale, sociale è in rapporto di simbiosi e costante crescita con esso. Nel 1927 per la prima volta nella storia, una componente sonora è sincronizzata alle immagini che scorrono sullo schermo. I grandi maestri del film muto di quell’epoca, che potremmo a questo punto apostrofare come “Sound Immigrants”, abituati e soprattutto capaci di dialogare attraverso il linguaggio delle immagini “sorde”, si son trovati in mano, con l’arrivo del sonoro, un’arma a doppio taglio, capace di arricchire le loro opere, ma anche, se sottovalutata, di mutilare la componente comunicativa del decoupage, tentandoli con la comodità di un narratore sicuramente più immediato e semplice da mettere in campo. (Rondolino, 2006, p. 254) Si provi ad immaginare per esempio “The Lodger” di Alfred Hitchcock, nella scena in cui è rappresentata la presenza di un uomo al piano superiore della stanza in cui ci troviamo: nel 1926 il cinema era ancora muto, e il regista rappresenta questa situazione tramite espedienti di messa in scena (il lampadario che oscilla) e di montaggio (la sovrapposizione di immagini in trasparenza); con l’ausilio del suono tutto questo si sarebbe risolto probabilmente tramite un banale rumore di passi, poichè scegliere questo mezzo significa dare la priorità all’azione ed ai dialoghi. Vien spontaneo comprendere la differenza dell’approccio nella rappresentazione in un caso come questo. (Truffaut F., 1983, p. 38) Quei registi “Sound Natives”, cresciuti cioè quando già il sonoro era stato introdotto, han svuotato di significato le immagini per farle letterlamente parlare. E si pensi a tutti quei talk movies e commedie degli anni ’30 e ’40, che peraltro impazzavano ed avevano successo al botteghino, ma che, improntati secondo i canoni del film commerciale Hollywoodiano, si dimostravano carenti dal punto di vista registico ed espressivo rispetto ai predecessori. Può essere considerato un passo indietro? Un cambiamento di stile, sicuro, ma verso un impoverimento del linguaggio cimenatografico? Una situazione di mutamento e adozione di nuovi standard non per forza è sinonimo di migrazione di massa verso quei nuovi standard: non tutti i regitsi e autori abbracciano subito e con piacere le novità soprattutto se ancora in fase di sperimentazione. Quel che è certo è che si è dovuta fronteggiare un’inevitabile trasformazione del sistema, poichè se il regista dal suo punto di vista artistico ed autoriale poteva preferire o meno il suono nel suo film, il produttore esigeva l’adozione della nuova tecnica poichè il pubblico la chiedeva a gran voce. Da questo punto di vista il cinema ha beneficiato di una forte spinta e crescita come fenomeno sociale, per cui non si può parlare di passi indietro in maniera assoluta. Successivamente, la conseguenza degli investimenti atti a rendere il suono uno standard diffuso, ha permesso a questo di essere oggetto di studio e raffinazione dal punto di vista sia tecnico quanto artistico, fino ad amalgamarlo degnamente e definitivamente nel processo di costruzione del film, processo questo, compiuto dalla generazione dei Natives.
Ecco dunque perchè possiamo ritenere che quanto sta verificandosi nel panorama del cinema attuale riguardo al 3D, è un processo ancora in fase di definizione; come insegna il passato, il 3D ha tentanto di affermarsi numerose volte, senza successo, e questo è un voto di sfiducia; altrettanto vero però è che il continuo riproporsi nella storia del cinema è dovuto alle enormi potenzialità di tale effetto, e questo è un voto di fiducia; considerando che ogni tentativo nel tempo aggiusta sensibilmente la mira, non bisogna escludere che questa sia la volta buona per centrare il bersaglio.
[Section 02]: La reazione del settore cinematografico oggi

La parabola del cinema stereoscopico, dal 2003 ad oggi, ha visto l’andamento di curve differenti, momenti in salita e altri in discesa; dapprima pochissimi titoli proposti timidamente all’inizio del secolo, “Viaggio al centro della terra 3D”, “Spy Kids 3D”, “The nightmare before cristhmas 3D”, quasi destinati ad un targhet di pubblico esclusivamente giovane, ma che riscossero consenso. Nel 2008 l’effetto viene applicato ad altri generi (es. l’horror “My Bloody Valentine”), confermando l’interesse e preparando il terreno per l’arrivo nell’anno successivo di titoli dal notevole potenziale: l’appeal sul pubblico è tanto efficente quanto efficace e lo dimostrano studi e ricerche sul trend del fenomeno:

The European Audiovisual Observatory has released its first estimates for European cinema attendance in 2009. The Observatory estimates that total admissions in the European Union increased to about 985 million tickets sold. In a difficult economic environment this represents impressive 6.5% growth year-on-year and the highest admissions level since the record-breaking result in 2004.
(3Dvision, 2010, p.4)

Nel numero di febbraio 2010 della news letter edita da Sony sul tema del 3D, si legge che l’International 3D Society ha pubblicato uno studio sull’andamento del cinema 3D che mostra chiaramente come gli spettatori nel weeknd scelgano lo spettacolo 3D rispetto a quello 2D con un rapporto 2:1, e conseguenti netti margini di ricavo. La relazione dimostra come nel caso dell’usicta di “Alice in Wonderland”, il 70% dei biglietti venduti nel weekend di esordio del film erano per lo spettacolo in 3D; ancora più significativo l’80% di pubblico che sceglie la versione stereoscopica di “Avatar”, sempre nel primo weekend di programmazione. Dunque nel 2010 il presidente dell’International 3D Society aveva ragione ad affermare: "While this study is just a snap shot of what opening weekend's 3D grosses look like, these kinds of trends do reflect that consumers are obviously thrilled by 3D." Il solo fatto di proporre film in 3D batsava a confermare una massiccia affluenza in sala e di conseguenza per effetto del rincaro del biglietto anche a garantire degli introiti assolutamente interessanti rispetto alle medie del nostro tempo.

Dal 2011, al contrario, si riscontra un atteggiamento mutato da parte del pubblico: la possibilità di vedere un film con gli occhialini viene quasi percepita come un’opzione, e nemmeno troppo allettante nè ormai più vista come una “novità”. Un comportamento come questo trova una spiegazione plausibile in vari ambiti, che vanno dalla qualità del prodotto offerto (in termini di scelte di produzione, e postproduzione), alla mera tendenza che spinge lo spettatore ad orientarsi passivamente verso qualcosa a cui tutti fanno o meno riferimento. Il sopracictato Jeffrey Katzenberg, assieme a James Cameron, uno dei promotori e dei pionieri più convinti del 3D di nuova generazione, con amarezza, ammette nell’exclusive Q&A del 2010 con Pamela McClintock, che la nuova tecnologia, a soli due anni dal boom, si trova già in una fase discendente.

I think 3D is right smack in the middle of its terrible twos. We have disappointed our audience multiple times now, and because of that I think there is genuine distrust whereas a year and a half ago, there was genuine excitement, enthusiasm and reward for the first group of 3D films that actually delivered a quality experience. Now that's been seriously undermined. It's really heartbreaking to see what has been the single greatest opportunity that has happened to the film business in over a decade being harmed. The audience has spoken, and they have spoken really loudly.”
Il pubblico lamenta la mancanza di qualcosa di nuovo negli ultimissimi spettacoli 3D oltre a percepire, anche se non sempre in maniera consapevole, una carenza di qualità a fronte di un biglietto dal costo comunque elevato. Katzenberg risponde allo spettatore con una lungimiranza che ci fa comprendere il motivo della sua posizione di CEO alla DreamWorks Animation Studios, senza peccare di quella comprensione e responsabilità che lui stesso ed i suoi colleghi-concorrenti del settore hanno nei confronti sia del pubblico quanto del sistema; quando l’argomento di protesta verge sul costo del biglietto, Jeffery risponde:
“Here's the thing: We are giving our audience a choice. We didn't take a plane and convert it to all first class. To people who say there is price pressure, or price sensitivity, even in the family market, I say, "OK, that's why we have continued to support a 2D format and made sure that the 2D movie we're delivering today is better than the movie we delivered two years or three years ago." Quite frankly, there's no industry in the world that doesn't attempt to move up the customer to a premium experience. I don't care whether you make shoes or wine or iced tea or cars, everybody tries to create multiple price points. So why shouldn't we be in the same business of offering our customers a premium experience at a premium price as long as we deliver them a premium value? If we cheat them, which is what has happened now too many times, then they'll walk away from it.”
Una argomentazione come questa non necessita di ulteriori argomenti a favore. La ragione al consumatore, invece nel momento in cui lamenta la percezione che il prodotto pecchi di pregio, anche senza conoscerne il motivo; la qualità sarebbe andata scemando secondo Katzenberg soprattutto a causa della diffusione del 3D convertito, ovvero delle pellicole girate in 2D e rimaneggiate solo in fase di post-produzione, contro il quale si sono battuti sia lui che altri fautori della nuova ondata 3D. Fatto sta che fino a poco tempo fa il trend 3D sembrava inarrestabile e negli ultimi mesi le case di produzione hanno messo in cantiere una valanga di film 3D che hanno invaso le nostre sale e continuano a farlo. Mettendo da parte per ora il caso di “Avatar”, film unico e forse irripetibile esempio di 3D d’altissimo livello, sono stati distribuiti film nel formato stereoscopico decisamente non all’altezza, a partire dall’altro grande successo, il già citato “Alice in Wonderland”, girato non in 3D nativo, ma riconvertito in seguito. Il punto della questione verge proprio sul risultato mediocre della riconversione dei film 3D. La riconversione (trascodifica, o dimensionalizzazione) è il processo mediante il quale ogni frame di un lungometraggio, viene analizzato per isolarne i piani che lo compongono; una volta definiti questi, il frame viene letteralmente ritagliato ed I piani separati vengono ricostruiti e disposti a profondità diverse, poi tramite un apposito software elaborati per ricreare l’effetto della visione stereoscopica. Il processo, oltre ad essere parecchio dispendioso in termini di tempo e costi, presenta dei risultati a conti fatti mediocri. Il malcontento deriva sia dall’approssimazione dell’effetto, che non potrà mai essere paragonabile ad una ripresa stereoscopica nativa, sia dal fatto che riconvertire una regia non pensata per il 3D, non aggiunge altro che un pò di profondità all’inquadratura, ma nulla allo stile, alla messa in scena, alla narrazione. E questo si percepisce, soprattutto a confronto di quei film dove il 3D è impiegato con cognizione. La trascodifica è il più delle volte un mero espediente per gonfiare gli introiti. Un esempio lampante di questa strategia errata è riscontrabile in quanto avvenuto con la riconversione di “Clash of The Titans”, continua Katzenberg:
“We've seen the highest end of 3D in "Avatar" and you have now witnessed the lowest end of it in "Clash of the Titans". You cannot do anything that is of a lower grade and a lower quality than what has just been done on it. So the issue is actually about what that movie represents, a different experience. And in my opinion, one that, if replicated, and becomes the standard, is the end of 3D.”
Ma in che modo queste riconversioni soffocherebbero il fenomeno 3D? Nel momento dell’avvento del sonoro, moltissimi film furono sonorizzati in fretta e furia per abbracciare le tendenze del momento, e il sonoro non si perse in solo fumo nel giro di pochi anni. Il motivo del timore va ricercato nel concetto dell’offerta premium: richiedere di pagare per un contenuto di qualità premium ed offrire qualcosa decisamente al di sotto delle aspettative oggettive non può che portare ovviemente il cliente a non scegliere mai più quel prodotto premium; la questione del 3D convertito è paragonabile ad un film in bianco e nero, ricolorato, e ridistribuito a prezzo maggiorato; oltre al fatto della regia che sarebbe pensata per il bianco e nero bisogna aggiungere il risultato mediocre di una ricolorazione e il rincaro del biglietto: uno spettatore non potrebbe che restarne insoddisfatto. In quest’ottica il 3D crollerebbe di conseguenza alla fuga del pubblico, che non comperando I biglietti, non apporta introiti e causa il collasso del sistema. Giusta quindi sotto questa luce la tendenza della massa. Gli studios stanno puntando sempre di più sul formato stereoscopico: se nel 2009 rappresentava una novità di cui la gente era curiosa ed entusiasta di poter usufruire, la crescita esponenziale di film tridimensionali in uscita ha annacquato decisamente l’offerta; in alcuni periodi si è verificato un vero e proprio intasamento di film tridimensionali che gli spettatori han cominciato a disertare.
In Italia, ad esempio, per l’inverno 2011, sono previsti una ventina di titoli 3D (che verranno distribuiti comunque in parallelo alle versioni 2D), tra cui Hugo Cabret, firmato niente meno che da Scorsese. Gli schermi tridimensionali in Italia sono passati dai 40 di fine 2008 a ormai oltre 860 nel 2011, aspetto che permette di gestire l’uscita in contemporanea di più film tridimensionali come richiesto a più riprese dall’industria hollywoodiana che ha puntato molto sul 3D; lo si può vedere dal numero di film stereoscopici usciti dal 2009 al 2011: sono stati 10 nel 2009, 23 nel 2010, erano già 19 a fine luglio 2011 e a fine anno saranno 37. (bestmovie.it, [online]) Volendo definire il cinema, oltre che come fenomeno sociale, come un’arte ci troviamo a scindere due componenti distinte dell’ambito cinematografico: un piano artistico, ed un piano economico; partendo dal presupposto che in generale è difficile assegnare un valore monetario ad un bene artistico, è chiaro invece come questo sia sottomesso al valore che inevitabilmente si cerca di attribuirgli. Suddetto valore è però la spinta che il più delle volte fa la differenza sulla bilancia: se un regista guarda al suo film come alla “concretizzazione” di un percorso, al raggiungimento di uno stato artistico e concettuale, un produttore oltre a questo, vede il più delle volte un ritorno economico; ritorno che sarà tanto maggiore quanto migliore sarà il valore del prodotto. E questo valore intrinseco del prodotto filmico, che alla fine dei conti si traduce nel prezzo del biglietto per lo spettatore, fa la differenza sulla decisione di quest’ultimo nell’andare a vedere il film, quindi l’offerta di qualcosa di speciale giustificha la spesa; tutto ciò si traduce infine nella volontà da parte di chi finanzia di voler sfruttare al massimo le innovazioni, e da parte di chi dirige, di dover stare al passo coi tempi. Va riconosciuto che in un brevissimo lasso di tempo il 3D ha fatto guadagnare produttori, distributori ed esercenti. Ora, però, è necessario non disperdere e svilire quanto guadagnato, non solo economicante parlando, e fare in modo che il cinema tridimensionale continui ad essere una risorsa in grado di rinforzare il mercato agendo in maniera corretta e soddifando cioè il consumatore.
Dunque il 3D è un treno che il cinema di oggi rischia di perdere; ma la cinematografia non è l’unico ambito in cui può essere sfruttato materiale stereoscopico: la TV sta investendo moltissimo in questa tecnologia, da chi produce I contenuti, a chi i supporti per poterli usufruire; giocano un ruolo di rilievo i colossi Hi-Thech che non han perso tempo ad avviare una massiccia produzione di beni di tipo consumer per l’home entertainment compatibili con il 3D: dai televisori 3D ready, ai lettori Blu-Ray3D agli stessi supporti Blu-Ray3D. Un cavallo su cui puntare per la penetrazione di broadcast stereoscopico sono i contenuti sportivi, tanto per la capacità del prodotto in sè di trovare sempre consenso nel pubblico, quanto per l’efficacia dell’applicazione dela terza dimensione: praticamente qualunque tipo di sport gioca sulle geometrie ed I rapporti tra gli spazi, la resa prospettica è importante e la profondità che si raggiunge è efficace, riesce ad esaltarla, e rendere il contenuto davvero innovativa e attraente per lo spettatore. Un altro genere televisivo che riscuote successo per la resa dell’effetto 3D è il filone del documentario, soprattutto quello appartenente alla fascia tematica della natura, degli esseri viventi, delle scienze, della cultura. Paradossalemente ma anche comprensibilmente, l’effetto è migliore làddove I contenuti non sono troppo elaborati e atti a creare stupore, qunto invece semplici nel loro mostrare e ripodurre una realtà. Con la questione TV e Home Video però, si aprono letteralmente altri orizzonti e spunti di dibattito che esulano dal focus del nostro interesse.

Chapter 03: 3D State of the Art


“It’s ‘back to the future’ for stereoscopic 3D. The difference now is that digital technologies have made many of the issues associated with the 3D format of the 50’s go away. For instance film wave on each eye and anaglyph viewing have been supplanted by high resolution, rock-steady images, courtesy of high viewing technology that allows color values to remain unaffected. Those latter-day advancements have rekindled interest in stereo 3Dsortytelling for both theatrical and broadcasting television applications. The question is, with the growing popularity of 3D viewing technology in films and games how can content be created easily and affordably in high quality range?”
(Michael Lindsay, 2009, p. 3)

Oltre a ricercare un modo facile e sicuro per produrre contenuti stereoscopici, è importante che questi siano di qualità; un parametro di questo tipo implica che il processo di produzione venga portato avanti da professionisti capaci, menti tanto creative quanto razionali, artisti digitali e da ora artisti del 3D.  Andiamo a vedere più in dettaglio come avviene il processo che porta alla realizzazione concreta di un film 3D. Per effetto della specializzazione che stanno subendo le tecnologie utilizzate, le regole teorico-pratiche delle produzioni 3D continuano a mutare; tempo viene speso nella ricerca da parte degli addetti ai lavori, e prove su prove, con il fine di sintetizzare il workflow ideale per la specifica produzione, ma anche per condividere la risoluzione di imprevisti e problemi comuni; il settore cresce unito nella competizione.

[Section 01]: Fattori determinanti

Come spiega Bernard Mendiburu, nel suo volume “3D Movie Making” del 2009, per cominciare il percorso bisogna delineare quelle caratteristiche, quegli elementi che concorrono a condizionare e connotare il meccanismo di resa della profondità. E’ possibile distinguere parametri basilari ed elementi che invece si rapportano di conseguenza ai primi all’interno di questo sistema.

Stereo Imaging, due immagini separate: abbiamo detto che l’immagine stereoscopica si ottiene tramite la fusione di due immagini separate caratterizzate da due punti di vista leggermente differenti rispetto alla stessa scena. Dunque in fase di ripresa questa condizione necessaria si traduce nell’utilizzo di due macchine da presa posizionate poco distanti l’una dall’altra in maniera funzionale a simulare l’apparato visivo umano e il suo sistema di ricezione della luce. Ne risulta che avremo una doppia ripresa, con una doppia esposizione, e l’aspetto importante che rende efficace l’effetto è la relazione tra queste due immagini: "It’s the relationship between the two. The way they are matched makes the 3D effect.” (Bernard Mendiburu, 2009, p. 47)

 


Parallax, parallasse: è il fenomeno per cui un oggetto sembra spostarsi rispetto allo sfondo quando cambia il punto d’osservazione. Se prendiamo ad esempio due frame consequenziali, in cui abbiamo un oggetto, lo sfondo ed un movimento di camera laterale, la distanza fra le due posizioni dell’oggetto nei due frame è detta parallasse. Pur essendo sia l’oggetto che lo sfondo, fermi, per effetto del movimento di camera avremo l’impressione che questi scivolino sul loro piano nello spazio con velocità diverse.
Active & Passive Depth, profondità attiva (PA) e profondità passiva (PP): prendiamo come riferimento il piano sul quale avviene l’azione (che può essere identificato con lo schermo della proiezione 3D), gli elementi che percepiamo andare in profondità, all’interno del quadro, dentro lo schermo, appartengono alla porzione di profondità definita passiva; al contrario quegli elementi che bucano lo schermo, venendo verso di noi, si muovono nella profondità attiva. Una regola formale che scaturisce dalla distinzione tra PA e PP riguarda l’azione della scena: durante il corso della rappresentazione, l’azione è bene che si svolga per la maggior parte del tempo in PP e che solo in determinati momenti, picchi dell’azione appunto, si sposti nella PA; non si tratta di una costrizione tecnica, quanto di un accorgimento funzionale alla regia, poichè la PA condiziona fortemente il susseguirsi degli stacchi e crea vertici nel climax dinamico della scena. Inoltre bisogna sottolineare che quando ci si trova nella profondità attiva è importantissimo rimanere con il soggetto-oggetto all’interno del quadro: nel momento in cui si va a ”toccare” questo limite rappresentato fisicamente dal perimetro del frame, l’effetto dell’oggetto che buca lo schermo viene a perdersi immediatamente lasciando spazio ad un’immagine dalla profondità mutilata e sgradevole alla vista. Le proprietà fisiche che determinano le dinamiche della profondità attiva e passiva sono la convergenza degli assi e la distanza fra gli assi dei due obiettivi.

Convergence, la convergenza degli assi: nel sistema visivo umano, gli occhi hanno uno stesso punto di convergenza, guardano cioè entrambi verso un punto in una porzione di spazio limitata ad una distanza ben definita. Verosimilmente quando l’attenzione si sposta verso un altro punto di interesse, questa convergenza varia conseguentemente. Capire la dinamica di questa proprietà è fondamentale per inquadrare e delineare in maniera chiara anche gli altri fattori che contribuiscono a definire l’effetto: se gli assi delle due camere sono disposti parallelamente, l’immagine 3D risultante si svilupperà a partire dallo schermo verso di noi, nella aprofondità attiva; più andremo a convergere gli assi tra loro e maggiormente spingeremo le immagini in profondità all’interno dello schermo, nella profondità passiva. La convergenza nell’immagine può essere modificata anche in fase di post.


Interocular Distance, la distanza fra gli assi (IO oppure IA): nella visione binoculare umana, gli occhi si trovano ad una distanza ben definita che tradotta nel sistema di ripresa è la distanza fra i due obiettivi. Questo valore non rappresenta una grandezza fissa, tant’è che una sua variazione in fase di ripresa si traduce in una resa dell’effetto della profondità più o meno accentuata, o comunque differente. Allontanando le due camere, il soggetto si staccherà sempre più dallo sfondo, quasi crescendo, mentre avvicinandole si rimpicciolirà perdendo profondità fino al caso limite in cui le ottiche vanno a coincidere ed avremo un solo “occhio” ed un’immagine di conseguenza piatta. Aumentare o diminuire la IO equivale ad allargare o restringere il range fra gli estremi delle PA e PP. La scelta di modificare la distanza fra le ottiche, adottando comunque valori non troppo distanti fra loro, è una scelta di tipo tecnico artistico, legata alla categoria delle ottiche impiegate e si traduce nelle necessità di rendere delle scene con una prospettiva e una profondità particoalri, a seconda del tipo di comunicazione che si vuole instaurare con lo spettatore. Importante aggiungere che la IO non e possibile modificarla in fase di post.


Occlusion, l’ occlusione: la posizione degli oggetti inanimati e animati, all’interno del quadro ha importanza nel momento in cui questi si dispongono sulla stessa linea ma a profondità diverse, andandosi a sovrapporre l’uno con l’altro. La relazione che viene a crearsi tra tali elementi comporta la differenza che risulta tra le due immagini che si andranno a riprendere. Banalmente se mettiamo una mano poco distante dal viso e proviamo a chiudere alternativamente gli occhi, ci accorgeremo di come l’immagine vista dall’occhio destro sarà diversa da quella vista dal sinistro in particolare per quanto riguarda la posizione della nostra mano rispetto allo sfondo e all’interno del quadro della visuale. Questa relazione permette al nostro sistema percettivo di cogliere con estrema sicurezza la posizione degli oggetti nella scena. E’ in questo senso dunque che l’occlusione degli gli elementi scenici ha un peso non trascurabile nella costruzione del quadro, e deve essere una scelta ponderata in maniera attenta in fase di progettazione dell’immagine stereoscopica finale.

Dimensione prospettica: anche conoscere le dimensioni, l’ingombro nello spazio di un oggetto o di un’entità presente nella scena ci conducono automaticamente a collocarlo in maniera coerente nello spazio scenico, ed a rapportarlo in egual modo agli altri elementi. Se non si conoscono le dimensioni o non è possibile dedurle verosimilmente, risulta difficile che questo automatismo del nostro sistema percettivo si manifesti.

Geometrie prospettiche: in maniera analoga a quanto succede per le dimensioni, anche le forme degli oggetti e le geometrie degli spazi, ci permettono di collocare I vari elementi in gioco coerentemente nella scena; lo studio delle geometrie può risultare davvero efficace per la resa della profondità tanto che la scelta di costuzioni prospettiche ingannevoli o troppo articolate può compromettere l’immediatezza della leggibilità del quadro e minare l’attenzione dello spettatore rovinando così l’effetto “immersione”, che è uno dei punti forti dei film in 3D; inoltre in questi casi c’è la possibilità che si vengano a creare sensazioni di smarrimento in quanto il processo con cui il cervello ricrea la prospettiva risulta più complicato e richiede un maggiore sforzo.

Fuoco prospettico: Quando guardando un paesaggio, focalizziamo l’attenzione (ed il termine non è usato a caso) in una frazione del piano ad una determinata distanza, inconsciamente ci aspettiamo che la porzione tra noi ed il punto di interesse, e la porzione oltre il punto di interesse, risultino fuori fuoco. Questo fenomeno ottico dipende dall’obiettivo impiegato in fase di ripresa, si manifesta nelle immagini statiche, dinamiche ed è fortemente accentuato in quelle stereoscopiche, nonchè direttamente influenzato dalla convergenza in queste ultime. Sebbene ci sia una connessione intuitiva, il fuoco prospettico non va confuso con quel fenomeno, di natura più atmosferica che ottica, per cui osservando un paesaggio esteso si percepisce come aumentando la distanza da noi, i vari piani risultino in lontananza sempre più offuscati, desaturati ed omogenei. Esso è dovuto al crescente inspessimento e alla sovrapposizione dei mateirali sospesi nell’aria, che nelle lunghe distanze vanno a velare sempre più la visuale, senza che venga influenzato dall’obiettivo dell’osservatore.

Pattern: Il pattern di un oggetto è la sua texture, ovvero la “pelle” con cui ci appare, lo strato superficiale di cui percepiamo le caratteristiche fisiche con il solo utilizzo degli occhi; riconoscere il pattern di un oggetto e ricollegarlo mentalmente a proprietà che già conosciamo, secondo un processo coerente alla nostra esperienza, ci aiuta in maniera involontaria a relazionare l’oggetto intero alla scena. Riconoscere il colore, il modo di riflettere la luce, di rifrangerla o filtrarla, di assorbirla, di interagire con la superficie di altri oggetti, fanno del pattern di ogni elemento un degno biglietto da visita per la sua comprensione formale all’interno della scena. Mano a mano che ci si allontana dall’oggetto in questione il suo pattern diventa più piccolo e fine. Anche in questo caso è necessario porre attenzione alla scelta del modo di rappresentare la superficie degli oggetti, tenendo conto della loro interazione reciproca e con al luce dell’ambiente.  

Come è intuibile, la parola chiave dell’effetto 3D fra quelle viste è la parallasse; essa determina le dinamiche che caratterizzano maggiormente la profondità, assieme alle proprietà che stanno invece alla base del processo di ripresa stereoscopica, ovvero la convergenza e la distanza interasse, che combinate fra loro regolano la profondità attiva e passiva; le rimanenti giocano un ruolo nella parte di messa in scena e costruzione del quadro; è comunque importante che tutte queste caratteristiche lavorino assieme in maniera coerente e costruttiva. Dunque una volta forti di queste nozioni, è tempo della preproduzione cioè della progettazione e organizzazione di quello che si vuole girare.


[Section 02]: La fase più importante: la preproduzione

Nella fase di preproduzione del contenuto 3D la cosa più importante, e ovvia, è cominciare fin da subito a “pensare in 3D”, tenendo cioè sempre conto di cosa comporta la scelta della stereoscopia in ogni ambito della produzione. Dimenticarsi o prestare poca attenzione a questa caratteristica e comportarsi come se si stesse progettando un film 2D è assolutamente controproducente. Ogni reparto è influenzato, coinvolto e deve fronteggiare un iter differente rispetto al 2D; non bisogna pensare che il 3D sia una semplice aggiunta nel percorso produttivo, è un mezzo che richiede un approccio diverso e presenta problematiche nuove soprattutto quando si lavora con una crew che affronta questa sfida per la prima volta. Anche le fasi di scrittura della trama e stesura della sceneggiatura devono tenere conto della presenza del 3D e prevedere quindi di andare incontro a questa condizione nel modo più funzionale possibile sia per predisporre e sfruttare al meglio la tecnica, sia per giovare alla narrazione stessa. Il 3D va trattato con lo stesso peso con cui si sceglie la linea cromatica del film, la fotografia ma anche il sound design, e quant’altro; è necessario decidere la profondità che si vorrà raggiungere, anche in realzione agli interpreti, formulando quindi per esempio un trattamento particolare per determinati personaggi, ma anche in funzione di eventuali effetti speciali, compositing o elementi da aggiungere in seguito; l’integrazione del 3D nel processo di concept è dunque essenziale. L’analisi dell’ambito registico in particolare, permette di comprendere perchè la fase di progettazione ricopre l’importanza suddetta: un piano dettagliato si richiede per avere chiara e definita la sequenza di shooting ancor prima dell’inizio delle riprese. Una delle problmeatiche della fase di ripresa stereoscopica infatti riguarda i tempi tecnici necessari per la preparazione dell’apparato sul quale vengono montate e calibrate le camere, detto rig, e la regolazione dei valori fondamentali delle ottiche; un altro inconveniente è rappresentato dalla notevole massa del sistema rig+camere+supporto+tools in aggiunta: la complessità di questo apparato lo rende delicato, e poco flessibile nell’utilizzo.

“With 3D capture, the ability to shoot jazz style, off-the-cuff, wasn’t possible. We did have spontaneity, but within the context of having to figure out how to do it in the third dimension. Spontaneous decisions sometimes proved to be impractical. The challengebecame how to adopt the 3D technology and make it flexible enough for amovie of this scale.”
(Darius Wolski, 2011, p. 38)
a proposito di “Pirates of Caribbean: on Stranger Tides”

Il rig 3D nella sua impostazione standard prevede gli obiettivi disposti Side-by-Side, cioè sulla stessa linea, proprio come nella visuale umana. Ora, spiega Ira Tiffen nel suo articolo sulle “ottiche nel 3D” (2011, p. 54), la disposizione Side-by-Side non consente per questioni legate alle dimensioni fisiche delle camere affiancate, di diminuire la distanza interasse fra gli obiettivi al di sotto di determinati valori, pur bassi che essi siano: ne risulta la difficoltà di riprendere scene in cui il soggetto è all’interno dei 2.2 metri di vicinanza alla camera. Un “inconveniente” di questo tipo, làddove è necessario scendere sotto determinati valori di IO, trova soluzione con l’adozione di una disposizione differente delle camere sul rig e l’introduzione del Beam Splitter: questa innovazione altro non è che un dispositivo ottico in grado di dividere il raggio di luce in due parti; solitamente è composto da una coppia di prismi uniti alla base, o da un piano trasparente con inserite lamine riflettenti; posizionando gli obiettivi delle camere perpendicolarmente invece che parallelamente, e puntandoli verso il Beam Splitter, anche la camera in perpendicolo rispetto alla scena riceve la giusta prospettiva stereoscopica. La disposizione ortogonale consente inoltre, di avvicinare le due camere per raggiungere valori molto bassi di quella che è una distanza interassiale derivata e non effettiva, ma che ne ricopre il ruolo a tutti gli effetti. Si può considerare questo come un degno esempio di come le problmeatiche riscontrate nel percorso di “rodaggio” della ripresa, vengano superate aiutando l’evoluzione interna del sistema stereoscopico.

Decisioni non sufficientemente soppesate, scelte sbagliate a monte, minano irreparabilmente la bontà del 3D e incidono significativamente sul rapporto costo-qualità-tempi. Un banale cambiamento di sorta dell’ultimo minuto costringe a rivedere l’impostazione di tutta la scena, e quindi riportare in campo ogni reparto perchè appronti il set di conseguenza alle modifiche. In questo senso si può affermare che l’impiego della stereoscopia limita la creatività del momento, fenomeno caro a molti registi, attori e perchè no anche al pubblico. Può succedere inoltre che la scena, una volta vista in fase di montaggio, non risulti “riuscita” o comunque poco efficace prettamente dal punto di vista 3D, causa progettazione errata della stessa, e che quindi vada rigirata in toto.

Nel film della Walt Disney Pictures, “Pirates of Caribbean: on Stranger Tides”, è possibile notare una scena che non sfrutta per nulla le potenzialità del 3D, la cui costruzione va altersì ad impedire l’espressione di tale effetto: si tratta di un dialogo tra due personaggi; partendo dal peso degli elementi nelle inquadrature, la regia sceglie di rimanere sul primo piano alternato fra I due interlocutori, gestendo però male la relazione tra il soggetto ed il quadro, in quanto va a tagliare la figura del primo rovinando la profondità attiva; in aggiunta, il background omogeneo e privo di ulteriori piani non aiuta nell’estensione della profondità passiva, così come la mancanza di qualunque movimento di camera che non sfrutta così l’effetto di parallasse; in ultimo la monocromia di una  fotografia molto cupa e velata, che non punta sui contrasti, non contribuisce a risaltare la fisicità dei soggetti rispetto alla scenografia.





In questo frangente di prgettazione si affronta anche la spinosa questione del 3D nativo o della riconversione: come si è visto questa tecnica di passaggio dal contenuto 2D in 3D presenta evidenti svantaggi; se però la decisione è presa a monte della produzione (e non all’ultimo momento con la fretta di voler adattare un film concepito in 2D solo per distribuirlo anche nel circuito tridimensionale) si ha il tempo ed il dovere di organizzarsi per girare consapevoli che il passaggio successivo sarà la trascodifica; dunque girare con cognizione: tenere presente ad esempio che il fuoco prospettico nell’immagine 2D rappresenta la profondità nell’immagine 3D, e quindi ragionare sulle diverse ottiche da impiegare in ripresa; prevedere movimenti di macchina in modo tale che il processo di dimensionalizzazione vada ad esaltarli correttamente; concepire una fotografia con una buona profondità già nella versione 2D, con buoni contrasti, colori vividi e tanta luce. Non è corretto dunque associare il concetto della riconversione ad un risultato per forza di bassa qualità, si tratta di una tecnica con pregi e difetti e se usata in maniera corretta garantisce I suoi risultati.

La prima inquadratura in “Avatar” è un primissimo piano del protagonista sdraiato in una capsula criogenica. La costruzione di questa scena rendeva tanto impossibile quanto inutile tentare una ripresa stereoscopica, sia per una questione di agibilità a causa dell’ingombro dell’attrezzatura stessa, sia per la mancanza di profondità tra il viso e lo sfondo nel primissimo piano. In questo caso la ripresa è stata fatta in 2D e la dimensionalizzazione è avvenuta in fase di post, con l’aggiunta peraltro di elementi sospesi nell’aria che contribuiscono ad accentuare la profondità tra i piani decisamente ravvicinati di questa inquadratura. In questo caso James Cameron ha sfruttato la tecnica di riconversione solo dove si dimostrava davvero necessaria e forse addirittura la scelta migliore rispetto ad una ripresa stereoscopica nativa, per le caratteristiche sopracitate dell’inquadratura di questa scena.  (Luca Oddo, 2011, Avatar)




Un altro caso rappresentativo di utilizzo ragionato del processo di trascodifica lo possiamo riscontrare nella produzione di “Alice in Wonderland”, altro kolossal 3D. Per questa produzione, come racconta il direttore della fotogafia Darius Walski nell’uscita di aprile di American Cinematographer, lo stesso Walski assieme al regista Tim Burton, hanno dedicato parecchio tempo a studiare il 3D nel tentativo di individuare la strada di impiego migliore per il loro film. La scelta del 3D nativo avrebbe sicuramente aiutato nell’intento di immergere lo spettatore in un mondo fantastico, come insegna Cameron, ma all’ultimo momento gli autori di Alice hanno optato per la riconversione in fase di post; decisione presa a fronte dei tempi tecnici che avrebbero richiesto le riprese in nativo, dei costi, nonchè dal fattore compositing: l’80% del film era stato concepito per essere girato in green screen, dunque le riprese avrebbero reso il Foreground, mentre il Background sarebbe stato aggiunto successivamente. Grazie agli studi e alle ricerche compiute, Walski era in grado di gestire correttamente la convergenza e la distanza interasse anche in fase di post-dimensionalizzazione, dunque anche in questo caso si può dire che la decisione della riconversione ha senso (malgrado I risultati), anzi non si tratta nemmeno più di una riconversione in coda al film, quanto di un ampio processo di compositing 3D.

“We studied examples of 2D movies that had been turned into 3D and agreed the results looked amazing, so, at the last minute, we decided to achieve 3D in post. But the tests we shot with the 3D rig were helpful, because they enabled us to understand the whole concept of convergence, how to design the space and so on. They helped keep a 3D image in the back of our minds while we were shooting.”
(Darius Walski, 2010,) a proposito di “Alice in Wonderland”




Non c’è una strada giusta o sbagliata per ottenere il 3D, ci sono metodi differenti, più o meno funzionali alla scena che si vuole ottenere, all’effetto che si ricerca. In questo frangente si vede nascere una nuova figura professionale che affianca I vertici nella produzione: lo stereografo, sostanzialmente un esperto di calcolo tridimensionale il cui compito è quello di seguire il regista e il direttore della fotografia, ma anche l’operatore, per guidarli nel percorso di progettazione e ripresa 3D; la sua mansione prevede la definizione dei confini della tridimensionalità, deve cioè comunicare costruttivamente al regista le possibilità del mezzo nelle sue caratteristiche espressive, ma anche avvisarlo dei  limiti tecnici dell’effetto, il tutto nella preproduzione e successivamente durante le riprese sul set.

[Section 03]: Produzione, Postproduzione e Fruizione

Nella fase di setting i reparti che devono prestare particolare attenzione alla costruzione del quadro sono la fotografia e la scenografia che come si è detto devono avere cura di concepire una rappresentazione luminosa, contrastata, geometricamente interessante e così via; in un certo senso si può dire che la linea giusta si riferisce molto a quella che è la concezione della scena teatrale, in fondo questa è una sorta di quadro dotato di profondità. Per quanto riguarda la regia, si ribadisce anche qui la funzionalità dei movimenti di macchina studiati a favore del risalto della profondità; banalmente la ripresa di un gruppo di persone con un movimento ad entrare nel gruppo offrirà un risultato più interessante rispetto alla stessa ripresa ma con un movimento di panoramica sul gruppo di persone da destra a sinistra. Stesso discorso vale per la scelta dei parametri di convergenza e distanza interassiale; la regia può instaurare un diverso tipo di rapporto con lo spettatore tramite la manipolazione di questi valori: per quanto riguarda la convergenza, questo punto di interesse nella realtà lo decide il soggetto che guarda, mentre nel film lo decide per l’appunto il regista, quindi se lo spettatore cerca di cambiare questo punto di interesse durante la visione del film non riesce, dovrebbe invece lasciarsi giudare dalla narrazione e non sforzarsi di mettere a fuoco quella che essendo una ricostruzione prospettica proiettata su un singolo piano non ha reale profondità nè fuoco prospettico.

“Some believe 3D is best served by deep focus. My view is that selective focus with short depth-of-field is a powerful tool in 3D, just as it is in 2D. We still want to direct the audience’s eye, and the focus plays a role in that, as do lighting, camera movement and staging.”
(Simon Gray, 2011, p. 38) a proposito di “Sanctum”

Le parole del direttore della fotografia di “Sanctum”, thriller drammatico in 3D prodotto da James Cameron, sono significative per comprendere come può il parametro della convergenza essere sfruttato per immergere e condurre lo spettatore nella vicenda. In “Tron Legacy”, altro kolossal targato Disney e firmato Joseph Kosinski, sempre riferendosi alla convergenza degli obiettivi, che lo ri ricorda, determina se gli elementi della scena sembrano uscire o meno dal piano dello schermo, la linea d’azione prevedeva di non legare quesa variabile con il fuoco.

“We treated convergence as a fixed point in 3D space that moves independently from focus, which makes the screen appear like a box you’re looking into, and keeps things from leaping out unnaturally. Additionally, we went against the ‘rule’ of deep-focus depth-of-field for 3D and let our backgrounds go really soft, which helps guide the eye along with the depth cues.”
(Claudio Miranda, 2011, p. 56) a proposito di “Tron Legacy”

Un’altra testimonianza giunge dal set della produzione di “Coraline”, diretto da Henry Selick, questa volta riguardo le scelte di gesione della distanza interassiale fra gli obiettivi. Questo lungometraggio di animazione è stato realizzato con la tecnica dello stop motion, che si basa cioè sull’animazione frame-by-frame di pupazzi in scala. Per il fatto che I pupazzi dopo essere stati posizionati per la ripresa, rimangono fermi, sarebbe bastata una sola camera per registrare entrambe le visuali stereoscopiche. I tecnici approntarono un rig per una camera sola dotato di slider per rendere affidabile e funzionale l’apparato. Il regista assieme con il direttore della fotografia, John Ashlee ed al supervisore 3D Brian Gardner, non si sorprese tanto nel constatare che più ci si avvicina al soggetto da riprendere, minore risulta la distanza fra le ottiche, quanto invece nel verificare che un eccessivo valore dell’IO, con conseguente proiezione fuori dallo scermo dei piani, causa fastidio e disagio non indifferenti nello spettatore distraendolo inoltre dalla narrazione. La distanza interassiale durante lo shooting veniva regolata tramite motion control, e dunque era possibile variarla senza inconvenienti per entrambe le visuali, mantenendo anche inoltre un buon margine d’azione per riallinearle in post.

“The combination became a powerful tool for creative work as well as solving technical issues. The most common use was on camera trucks that went from wide views to extreme close-ups. Henry wanted 3D depth to differentiate the Real World from the Other World specifically in sync with what Coraline is feeling. To do that, we kept the Real World at a reduced stereo depth, suggesting Coraline’s flat outlook, and used full 3D in the Other World.”
(Pete Kozachik, 2009, p. 28) a proposito di “Coraline”

Qualunque sia la linea del film, convergenza e IO non possono comunque essere manipolate in maniera indiscriminata: se l’effetto 3D è legato alla capacità cerebrale di adattarsi, troppi variazioni di questi paramentri, stacchi nel montaggio e movimenti veloci della camera, andranno inevitabilmente a creare problemi nella lettura dei quadri da parte del pubblico. Altre regole da tenere presenti durante le riprese di un film 3D, riguardano: il controllo dell’attrezzatura, che essendo “doppia”, presenta potenzialmente il doppio dei rischi ed aumenta la possibilità di errori umani; il reparto di data managing deve prestare massima attenzione alla fase di backup ed archivio del girato, in quanto una svista nell’ordinare i files può causare seri problemi in tabella di marcia, per non parlare della perdita dei frames di una delle due camere che può voler dire rigirare l’inquadratura; importantissima è la visione di controllo del girato: guardarlo sempre in 3D e possibilmente su uno schermo largo. Sul set neozelandese di “Avatar”, all’inizio delle riprese lo saff approntò una postazione per il controllo dei giornalieri dotata di due proiettori digitali 3D, in modo tale da permettere a Cameron e Fiore (il DOP) di ricontrollare il footage appena registrato direttamente in location e rifinire dove necessario l’effetto 3D “shot-by-shot”.

“In the beginning, we were checking on nearly every shot to make sure the lighting was solid and the convergence and interocular were correct. It was a very laborious way to start working, but it was necessary. The cameras themselves were a bit finicky in the beginning, and sometimes getting them to match up was a challenge. If one was even slightly off in terms of focus, the whole effect was ruined.”
(Mauro Fiore, 2009, p. 43)

Per quanto riguarda la fase di postproduzione, è sempre contemplato un ricontrollo digitale ed eventuale riallineamento della coppia di immagini per ogni fotogramma; la maggior parte delle correzioni sono semplici aggiustamenti di profondità, in alcuni casi è necessario operare traslazioni, rotazioni e zoom del frame per matcharlo con il complementare, e nei casi in cui uno dei quadri è danneggiato, è possibile salvare il frame operando una dimensionalizzazione dell’unico quadro buono. Laddove è previsto compositing 3D, questo rappresenta essenzialmente un compositing 2D asimmetrico effettuato sia sul girato “destro” che su quello “sinistro”, e richiede durante la lavorazione di essere visualizzato in real-time 3D su schermo grande: il processo è concettualmente semplice ma praticamente più complesso e prevede il settaggio degli effetti in una delle visuali, la replica e adattamento nell’altra visuale e la finitura della profondità del frame definitivo, sempre passando per un controllo in 3D. L’eventuale integrazione di CGI nella scena, comporta la modellazione di un set virtuale, e la renderizzare dei due punti di vista differenti. In realtà la CGI è la forma più semplice attraverso cui ottenere il 3D, proprio per la possibilità di gestire in toto le impostazioni del mondo virtuale creato, nonchè quelle del rig 3D virtuale con il quale si inquadra la scena; il rig più semplice utilizza due camere con settaggi di convergenza e distanza interassiale collegati; il rig più complesso implementa impostazioni supplementari per il movimento di parallasse dei pixel fra i vari piani della scena. Se l’idea è quella di arricchire la ripresa con effetti speciali di sorta, il consiglio è di mantenere la convergenza fra le ottiche tendente a zero, in modo da renderle parallele: in questo modo si evitano problemi legati al “keystone artefact”, una deformazione che si nota soprattutto in presenza di geometrie evidenti che vengono distorte. (Benjamin B., 2011, p. 62) Giunge infine la fase di render finale dell’intero film che richiederà ovviamente il doppio del tempo a parità di render engine rispetto ad una scena 2D.

Dunque la postproduzione si conclude con l’export del film in 3D stereoscopico; quest’ultimo passaggio avviene in funzione del metodo di fruizione previsto nel caso specifico. La visione di contenuti 3D può avvenire tramite diversi sistemi di proiezione-ricezione: i sistemi cosiddetti passivi sfruttano l’espediente dell’anaglifo o la polarizzazione delle immagini, mentre quelli detti attivi lavorano con dispositivi sincronizzati con l’apparato di proiezione per ricevere correttamente le immagini: il sistema anaglifico utilizza tipicamente un paio di filtri colorati in maniera complementare, cioè con colori che si trovano agli antipodi dello spettro circolare cromatico, come ad esempio il rosso e il ciano, che se combinati danno risultante grigia oppure nera a seconda dell’intensità; lo spettro di luce che passerà attraverso un filtro, non riuscirà invece a superare l’altro, e l’azione di filtraggio sarà maggiore con l’intensità della colorazione, che di conseguenza restituirà ad un’immagine molto scura essendo minore il passaggio della luce. La visuale destra è proiettata attraverso un filtro, quella sinistra attraverso il suo complementare, e l’iimagine combinata acquisisce profondità mediante l’azione degli occhialini colorati; un’immagine non bilanciata nei canali cromatici causerà un effetto di “ghosting”, cioè quando un occhio vede un traccia di quello che dovrebbe vedere solo l’altro. L’effetto dell’anaglifo trova migliore impiego nelle immagini in bianco e nero piuttosto che in quelle a colori proprio per il fatto di agire sui canali cromatici, in ogni caso nella sala cinematografica non è più utilizzato come sistema per proiettare film 3D. Un’altra tecnica che rientra nella categoria dei sistemi di proiezione passivi, è la polarizzazione lineare delle immagini, impiegata su larga scala proprio per l’efficacia nell’isolare certe vibrazioni luminose senza ostacolarne altre. In questo caso la porzione di luce che passa attraverso un polarizzatore orientato verticalmente, non attraverserà quello disposto orizzontalmente; finchè le immagini destinate all’occhio destro e sinistro rimangono proiettate rspettivamente con la stessa polarizzazione delle lenti degli occhiali, l’effetto 3D viene assicurato. Nelle proiezioni cinematografiche entrambe le immagini polarizzate si trovano a coesistere sullo schermo e giungono correttamente agli occhi filtrate dagli occhiali senza bisogno che questi vengano sincronizzati con il proiettore. Un sistema sincronizzato alla proiezione appartiene invece alla categoria attiva, ed è composto da occhiali le cui lenti sono display a cristalli liquidi in grado di bloccare la visuale con una frequenza elevata impercettibile: le immagini vengono proiettate sullo schermo altrenando quelle destinate per l’occhio destro e quelle per il sisnistro, e gli occhiali sono sincronizzati con iI proiettore in modo da permettere la visuale dell’occhio giusto rispetto alla proiezione. Questa modalità è più costosa e elaborata da settare, ma garantisce una visione più nitida per il fatto che l’occhio riceve un’immagine piena per volta e non una combinazione. Le tecnologie di ultima generazione stanno ora puntando sui pannelli autostereoscopici che già esistono ma con un difetto ancora determinante, ossia un angolo di visuale troppo ristretto. L’effetto 3D si manifesta solo posizinandosi di fronte allo schermo in un’ampiezza che non deve superare I 30°. I produttori di tecnologie consumer stanno implementando questo apparato, che malgrado il suddetto limite, dimostra ottime potenzialità per la futura friuzione del 3D.  (Ira Tiffen, 2011, p. 56)
In conclusione dunque si evince come gli sforzi del settore nei vari ambiti di una produzione e tecnicamente parlando siano ingenti e come la produzione stessa si adatti in ogni caso per ottenere un risultato particolare; attualmente il workflow del cinema stereoscopico è in fase di definizione e standardizzazione: molto si è sperimentato e continuerà a migliorare; sembra un meccanismo ormai ben oliato per incastrarsi nuovamente.


Chapter 04: Gli autori e il 3D

Ci si chiede da dove sia ricomparso il 3D in questi anni, chi ha deciso di puntare per l’ennesima volta su questa tecnica e perchè? La tridimensionalità è il mezzo per con Il quale si cerca di avvicinarsi maggiormente alla riproduzione della realtà; le immagini dei film oggi hanno ormai raggiunto un livello di perfezione e definizione davvero stupefacenti, comprese quelle generate artificialmente, ma sono e restano immagini piatte. Il passo successivo è conferire spessore a queste immagini, per creare senso di immersione e susictare sensazioni nuove nello spettatore. Cosa aggiunge dunque al film il 3D?
“Because 3D is our natural way of seeing, it brings a feeling of realism to the audience. With 3D, we no longer have to rebuild the volume of objects in the scene we are looking at, because we get them directly from our visual system. By reducing the effort involved in the suspension of disbelief, we significantly increase the immersion experience.”
(Bernard Mendiburu, 2009, p. 97)
Il cinema ha bisogno di garantire al pubblico tutto questo, soprattutto in un momento in cui il settore non gode di esuberi e la trasformazione dei canali di fruizione contribuisce a destabilizzare l’intero sistema.
[Section 01]: James Cameron e il film commerciale
E’ stato definito visionario e pioniere, per James Cameron aggettivazioni come queste non sono dette a caso: è cresciuto dirigendo progetti concepiti in grande, cavalcando la spettacolarità piuttosto che puntando sui contenuti, e bisogna ammettere che in questo ambito ha ben pochi rivavi in grado di eguagliare I suoi numeri. Può essere definito un autore commerciale proprio per il fatto di costruire I suoi film partendo da quella intuizione che rappresenta una sfida con il pubblico, affrontata sempre con la determinazione di chi crede nella propria visione ed è in grado di dimostrare agli altri di cosa si tratta. James Cameron ha visto nel 3D una possibilità tanto commerciale quanto artistico-espressiva già nel 2003 dove sfrutta questa tecnica per un film-documentario sull’esplorazione sottomarina del relitto del Titanic, “Ghosts of The Abyss”; ancora nel 2005 dirige “Aliens of The Deep” altro documentario sottomarino attraverso il quale vengono migliorate le tecniche sperimentate precedentemente; attraverso l’esperienza maturata in queste produzioni egli si convince che la stereoscopia possa rappresentare ad oggi una vera svolta per il cinema: tale sfida va a concretizzarsi con “Avatar”. La produzione di questo kolossal è stata gestita da Cameron a tutti gli stadi, avendo ben cura di costruire il suo film per il 3D; non è stata un’aggiunta quanto più una simbiosi, partendo dal tema, di semplice comprensione a favore della componente visiva, fino ad arrivare alla sceneggiatura che è modellata per servire il 3D e garantire la migliore espressione possibile per questo effetto. Avatar si rivela un prodotto molto ben costruito, che si poneva obiettivi stilistici, tecnici, commerciali che è riuscito a raggiungere in pieno, un film epocale che malgrado le immancabili opinioni contrastanti esce dalla sfida premessa come un netto vincitore. Purtroppo rappresenta allo stesso tempo un caso unico e nemmeno lontanamente eguagliato in particolare per quanto riguarda la filosofia di produzione; non è possibile fare a meno di citarlo poichè parlare di Avatar richiama quasi spontaneamente il 3D e viceversa, ma bisogna tenere conto relativamente dei suoi numeri in quanto è anche il fattore apripista del 3D il diretto responsabile di questo picco assoluto, che è già in calo con I film suoi successori, che han cavalcato male l’onda mossa da Cameron. Il regista stesso è uno dei più convinti sostenitori del 3D attualmente, ma condivide le opinioni di coloro che vedono sbagliata la strada intrapresa da moltissime delle produzioni attuali; la dimostrazione delle potenzialità del tridimensionale con Avatar è a disposizione di tutti, e anche togliendole la spinta del caso specifico, permane un risultato che non lascia indifferenti e sul quale bisognerebbe riflettere con più attenzione. “Cameron had put up the bar very high, 
but ever since, nobody tried to jump over it. 
They all walked safely underneath.(Mauro Fiore, 2010, p. 38)
[Section 02]: Wim Wenders e il film d’autore
Il filone del film d’autore, lontano dal block buster commerciale presenta per ovvi motivi una difficile penetrazione da parte del 3D nelle produzioni. Che sorta di film funziona davvero con questa nuova tecnologia? Come si riesce a mantenere la promessa di adozione di un linguaggio nuovo? Applicare il 3D in un film d’autore può migliorare le sue possibilità commericiali? Queste le domande che hanno avvicinato Wim Wenders al 3D. Wenders è un regista ed autore molto attento, ed è forse proprio per questa sua curiosità che nell’ultimo suo film documentario dedicato a Pina Bausch sfrutta degnamente la tecnica 3D. Il percorso che portò a compimento questo progetto è stato lungo e più di una volta si è arrestato a causa della difficoltà nel concepire come riportare sullo shcermo, come riuscire a cogliere l’essenza e rappresentare il lavoro di questa straordinaria artista danzatrice; Wenders ammette che in più di un’occasione si è trovato in un vicolo cieco: “I felt I just did not have the tools to do justice to her work”. Pina e Wim cercarono a lungo assieme un modo per catturare le coreografie e rievocarle in maniera unica senza ricadere in quella che è la replica della scena live. La situazione si sbloccò quando il regista tedesco incontrò la tecnologia del 3D e con essa la spazialità nello schermo: ”The dancer’s realm was space,
 with every gesture, every step, every movement 
they were exploring it, delving into it. 
And here was a tool that gave access to it!
 My craft had just been given an extra dimension!“. La scelta dunque non per seguire una tendenza, al contrario per dare quello spessore unico che avrebbe reso la danza di Pina l’attrazione del film. Non siamo di fronte ad un progetto costruito per l’effetto 3D, quanto ad un’opera che trova completezza mediante questa tecnologia. Wenders è anch’egli dell’idea che attualmente questa “stupefacente” tecnologia è utilizzata dalle Majors in maniera “oltraggiosa”, non menzina le lacune qualitative questa volta, ma sostiene che l’efficacia del 3D risieda nella capacità di riproduzione della realtà piuttosto che della finzione:
They have taken this language, this amazing new medium
 and kidnapped it, 
stolen it, mutilated it beyond recognition,
so none of their audiences could possibly conceive of it as a tool 
to represent reality. Human reality, our planet, 
our existence,
 our concerns. But I am convinced that this is what 3D was invented for
 and what it can do best.”
Malgrado questi esempi di autori che assieme a pochi altri hanno saputo spingere e concretizzare un’intuizione, che hanno avuto la giusta curiosità nel provare una nuova tecnologia, e che hanno capito la direzione migliore per procedere nel percorso, per ora, il 3D non viene sfruttato nella maniera migliore, non da tutti, ma dalla maggior parte; è come se appena nato il sonoro, i film venissero presentati con un rumore di fondo ambientale, ma i dialoghi fossero ancora visualizzati sui cartelli. La volontà pare però essere presente e I canali di fruizione sono ormai aperti e pronti a veicolare contenuti 3D, dunque ha sesno aspettarsi un ritorno in positivo durante questa fase di trasformazione, assestamento e standardizzazione.


Chapter 05: Il Pubblico e il 3D


Analizzando l’evoluzione del 3D dal punto di vista tecnico e storico, raccogliendo le testimonianze degli autori che da ormai un secolo stanno sperimentando e lavorando con questa tecnologia, le loro opinioni, il loro approccio nelle produzioni, per giungere infine a esaminare l’andamento di livello globale del box office, che fornisce un chiaro rifermiento di quella che è la strategia di chi produce e la soddisfazione o meno di chi fruisce, si è arrivati, come mostrato, a delineare una direzione per questo fenomeno che con l’attuale ripresa pare davvero riusicre a ritagliarsi un posto e soprattutto un ruolo nel panorama dell’intrattenimento e dei media contemporanei.

L’importanza di raccogliere un’ulteriore testimonianza in maniera diretta e non basarsi esclusivamente sulle conclusioni tratte da terzi, risiede nel fatto in primo luogo di confermare o rimettere in discussione tali conclusioni, ed in secondo luogo di operare una raccolta di dati mirata, seguendo un percorso originale e coerente con la ricerca che si sta portando avanti: il risultato potrebbe presentare sfumature diverse a seconda del mezzo e del modo impiegato per perseguirlo. Si è scelto come mezzo un modulo sottoforma di questionario, composto da una ventina di domande prevalentemente a risposta chiusa e che ruotano attorno a poche questioni fondamentali: una prima parte introduttiva per delineare le caratteristiche dello spettatore medio; nelle sezioni successive, ovvero il corpo centrale del questionario, viene valutato invece l’approccio del pubblico verso l’offerta cinematografica 3D, il livello di conoscenza del mezzo, le soddisfazioni e i malcontenti finora, ed infine le aspettative e i consigli per il futuro. Il documento è stato redatto in forma digitale, sfruttando la piattaforma di Google Docs; la scelta di qesta forma di e-document è legata sostanzialmente alla caratteristica dell’ambiente in cui si è deciso di divulgare e somministrare il questionario, oltre che legata ad un discorso di immediatezza nella propagazione del suddetto e successiva ricezione ed analisi dei risutlati: si è deciso di operare una selezione dei campioni a monte destinandolo agli utenti della rete, quindi con un grado tecnologizzazione già più specifico, passando per il social network per eccellenza, FaceBook; all’interno di questo circuito sono state individuate alcune aree di interesse inerenti al tema del questionario, come per esempio pagine e gruppi riguardanti film 3D o frequentati da persione con l’interesse per il cinema, ed in questie nicchie è stato proposto il modulo, presentandolo come un progetto di raccolta di dati al fine di stendere un profilo del trend attuale del cinema stereoscopico; si è previsto di saggiare approssimativamente un centinaio di campioni prima di passare all’analisi dei risultati definitiva. La scelta di operare una ricerca anonima garantisce da un lato maggiore sincerità e serenità nel rispondere alle domande, per quanto il tema non rappresenti in alcun modo motivo di riserve, dall’altro mina la serietà delle risposte in alcuni casi, ma in generale si parte dal presupposto che quei 10 minuti necessari alla compilazione del modulo non vengano investiti da chi compila per fornire risposte a caso. Di seguito gli esiti:

Dalle prime domande (01 e 02) viene inquadrato il profilo dello spettatore medio, riportando un abbondante 70% di pubblico appartenente alla fascia centrale dei 20-30 anni, mentre il restante 30% equamente spartito tra la fascia più giovane del 15-20 anni e quella più anziana tra i 30-60 anni. Di questo totale, il 60% è studente mentre il 30% lavoratore; l’ultimo 10% è composto in sostanza da disoccupati.


Scopo delle successive domande (03 e 04) è risalire alla frequenza con cui questo pubblico si reca al cinema, e quello che emerge è che un impressionante 90% entra in sala da una a due volte al mese senza considerarla un’abitunie quanto un raro diversivo; un terzo di questo 90% sostiene di andare al cinema solo quando esce un film che ritiene interessante.


Altra risposta allarmante si ricava chiedendo se quando si va al cinema si è da soli oppure in compagnia e se la cosa rappresenti un fattore determinante: il 50% rinuncia alla sala nel momento in cui non si trova in compagnia. Questo è indice del rapporto che viene a mancare tra il film e il singolo spettatore, e ciò si rispecchia nel gradimento effettivo che quest’ultimo ha in media nei confronti del prodotto cinematografico, ma anche del modo di fruirlo andando al cinema; il pubblico raggiunge comunque i contenuti, ma oggi i canali da cui attingere sono diversi e in contunuo mutamento, e questo è un fattore che non si può tralasciare.

Il terzetto di domande che segue (05, 06 e 07) riguarda la conoscenza delle terminologie tecniche specifiche del cinema 3D, ovvero l’aggettivo “stereoscopico” riferito ad un film, il principio di funzionamento degli occhialini usati per vedere i film e la “riconversione”; in tutti e tre i casi si riscontra una 30-40% di pubblico che non ha idea di cosa si stia parlando ma gradirebbe saperlo, mentre il restante 60-65% si spartisce con simile peso tra chi è sicuro di conoscere il significato e chi crede di conoscerlo ma non ha certezza. Una proporzione di questo tipo è comunque positiva per la natura specifica di questi argomenti tecnici e indica che lo spettatore è più che attento rispetto alle nuove tecnologie. Giunge dunque la fatidica domanda 08: “Hai mai visto un film in 3D?” questo punto rappresenta un bivio in quanto una risposta affermativa conduce ad una serie di domande sulle esperienze fatte, il gradimento ecc, mentre una risposta negativa prevede una conclusione più celere del percorso. Le proporzioni sono coerenti con le aspettative, anche se, visto il targhet in esame, un 15% di pubblico che non ha mai visto uno spettacolo 3D  tutt’oggi, è comunque una percentuale elevata.


Coloro che hanno risposto negativamente, imputano il motivo del disinteresse in primis nel costo elevato del biglietto, secondariamente a problemi legati alla vista ed in ultimo al passaparola negativo, aggiungendo inoltre che una maggiore informazione, e non pubblicizzazione, potrebbe avvicinarli a questa tecnologia.

Per il resto del pubblico che invece ha assistito almeno una volta ad uno spettacolo tridimensionale, si evince nettamente che il motivo principale dell’interesse è scaturito la prima volta per la curiosità verso quella che era una novità, 65% piuttosto che per il film in sé, 17% (09); si risocntra poi una netta scissione tra chi sceglie il film basandosi solo su come viene presentato e pubblicizzato  e chi invece si informa rispetto alla produzione, agli autori ed in generale a chi ci ha lavorato (11 e 16); inoltre tra le caratteristiche maggiormente tenute in considerazione nella scelta dello spettacolo (10) rientrano al primo posto il genere del film, la regia, il tema ed infine il formato nativo oppure riconvertito, anche se la maggior parte delle lamentele rigurado la qualità del 3D è da imputarsi a questa tecnica cui davvero pochi badano.

Il percorso continua (12) verificando il peso del costo del biglietto nella scelta di andare al cinema. Il pubblico si divide ancora una volta in parti uguali: in realtà questi risultati opposti portano a pensare che le voci degli spettatori siano sostanzialmente due, una di chi vede il cinema come un’opzione di scarsa attrattiva valida solo come passatempo, l’altra di chi lo considera un vero interesse e dedica tempo per seguirlo e coltivarlo.


Per quanto riguarda il gradimento in generale degli spettacoli in 3D (13), anche in questo caso non si riscontra una direzione univoca: un 25% non è per nulla soddisfatto e soprattutto non intende seguire oltre questa tendenza; un altro 25% pur non essendo soddisfatto è fiducioso che le miegliorie che verranno apportate renderanno il 3D gradevole; infine un buon 35% si ritiene appagato ma riscontra comunque una carenza netta di qualità che deve essere incrementata. Raggruppando le porzioni di pubblico non soddisfatto si nota però come queste rappresentino la metà del totale e dunque una risultante tendenza negativa del settore cinematografico 3D. Interessante notare come la fiducia nell’effetto 3D (14) risieda per il 65% dei soggetti in un impiego spettacolare vincolato ai generi d’azione, avventura, horror e grandi block buster piuttosto che a generi come la commedia, il dramma, l’indipendente; una percentuale ancora minore, il 46% se deve scegliere il 3D vuole che sia al servizio dei grandi effetti speciali (15): questi dati indicano che dall’altra parte, ben il 54% del pubblico sarebbe invece propenso a scegliere un film 3D d’autore qualora ci fossero più produzioni di questo tipo in uscita. Dunque forse si sta già andando a cercare una nuova forma di 3D, data l’insoddisfazione generale.

Il questionario continua con una nutrita lista di lungometraggi 3D usciti negli ultimi anni dei quali viene chiesto al pubblico un giudizio qualitativo (17): il dato importante però risiede nel fatto che dei 30 titoli proposti per ben 27, il 75% degli spettatori non ha visto la versione tridimensionale; unica eccezione riguarda il caso “Avatar” le cui percentuali riportano solo il 28% che non ha visto il film in 3D, contro un 33% che lo ha decisamente gradito in questo formato, un 12% che non ha trovato l’effetto sorprendente ed un 5% che avrebbe preferito vederlo in 2D.


Come si è visto anche in realzione all’analisi autoriale, “Avatar” rappresenta un caso a parte di cui si tiene conto ma in maniera oculata.

La questione qualitativa è un punto fondamentale del dibattito sul 3D, per questo è stato chiesto ai soggetti tramite una domanda a risposta libera (18) se nel momento dell’insoddisfazione legata all’effetto questi sono in grado di risalire al motivo di tale malcontento: molti segnalano la mancanza dell’effetto e la delusione delle aspettative, altri sensazioni fisiche spiacevoli, costi elevati e tattiche di marketing per imbrogliare il pubblico. Tutti ambiti che sono stati presi in considerazione e valutati nella ricerca effettuata.

Il modulo procede con una previsione sulle produzioni future (19), un elenco di titoli in uscita nel prossimo biennio con una media pari al 20% di spettatori che a priori andrebbero a vedere il film in 3D, un 30% che andrebbe a vederlo nella versione canonica ed un 50% che attenderebbe le critiche prima di decidere. Questo è un dato che dovrebbe lasciare i produttori sull’attenti in quanto c’è davvero poca fiducia allo stato attuale. Dunque si è chiesto per concludere il questionario, quale fiducia è riposta nel fenomeno 3D anche in rapporto al futuro: il 4% ha toale fiducia che il 3D in questa ripresa riuscirà ad instaurarsi come killer application nel settore. Una percentuale inesistente. il 15 % non ha al contrario nessuna fiducia in quella che considerano una moda già in declino e destinata all’ennesimo fallimento. Il 31% ha buone aspettative, reputa questa una fase di assestamento e vede una prospettiva futura sempre migliore per questa applicazione. Il 50% percepisce che il trend attuale non potrà che peggiorare se chi produce non fa attenzione ad offrire maggiore qualità oltre alla sigla 3D sulla locandina.

Dunque I dati confermano quanto appreso nel percorso di ricerca del trend attuale: fase di assestamento; attenzione alle scelte produttive; attuale malcontento ma sostanziale fiducia per il futuro.

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Andrea Francesco Berni 2010, Roger Ebert odia il 3D [online], Milano. Available from: http://www.3d-life.it/2010/05/roger-ebert-odia-il-3d/ [accessed: 04.11.2010]
Andrea Francesco Berni 2010, I registi e il 3D  [online], Milano. Available from: http://www.3d-life.it/tag/registi/ [accessed: 04.11.2010]
Mike Seymour 2010, Art of digital 3D stereoscopic film [online]. Available from: http://fxguide.com/article471.html [accessed: 02.11.2010]
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Joel Guntz 2010, Dial M For Murder, the greatest 3D movie ever made, [online], Available from: http://www.alfredhitchcockgeek.com/2010/10/dial-m-for-murder-greatest-3d-movie.html [accessed: 20.11.2011]
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Wim Wenders 2011, Interview about Pina [online]. Available from: http://www.wim-wenders.com/movies/movies_spec/pina/pina-interview-1.htm [accessed: 16.10.2011]
Wim Wenders 2011, Toronto International Stereoscopic 3D Conference [online]. Available from: http://www.wim-wenders.com/archives/2011-06-Toronto-Keynote-Speech/toronto-keynote-speech.htm                   [accessed: 16.10.2011]


Motion Piectures

Avatar (motion picture), 2009, USA, 20th Century Fox.
Coraline (motion picture), 2009, USA, Universal Pictures.
Toy Story 3 (motion picture), 2010, USA, Pixar Animation Studios.
The Owls of Ga'Hoole (motion picture), 2010, USA, Warner Bros.
Tron Legacy (motion picture), 2011, USA, Walt Disney Pictures.
Pirates of Caribbean: On Stranger Tides (motion picture) 2011, USA, Walt Disney Pictures.
Alice in Wonderland (motion picture) 2009, USA, Walt Disney Pictures.
Clash of The Titans (motion picture), 2010, USA, Warner Bros.

Events

Luca Oddo 2011, 3D or not 3D?, [workshop @ Accademia Belle Arti Brera, Milano, 05.10.2011].
John Lasseter 2011, Meet The Media Guru [Workshop @ Teatro Dal Verme, Milano, 21.11.2011].

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